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Il re è tornato

di Gianmarco Botti & Renata Rallo

“Nants ingonyama bagithi, Baba”. “È nato un leone, Signore”.
Il canto Swahili saluta l’alba di un nuovo giorno nella savana. Una colossale adunanza di animali di ogni specie accorre per rendere omaggio all’erede al trono. Non è soltanto l’inizio di un film, ma l’inizio di una vita. Perché è la vita, nella sua totalità e universalità, la vera protagonista de “Il Re Leone”. Gli animali che si muovono sullo sfondo della variegata savana africana sono agitati dalle decisamente umane passioni dell’amore e dell’odio, del coraggio e della paura, dell’altruismo e dell’invidia. È singolare che l’unico film dell’intera storia della Disney in cui l’homo sapiens è totalmente assente sia il più “umano” di tutti, nella misura in cui mette in scena sentimenti ed esperienze che fanno parte dell’eterna natura dell’uomo, non riferibili ad un contesto storico o geografico particolare. E forse è proprio questo, il rovesciamento del mondo degli uomini con le sue sovrastrutture, incrostazioni storiche e manifestazioni dell’inautentico, nell’universo degli animali, così vicino a tutto ciò che è natura, spontaneità e quindi “verità”, che fa della storia de “Il Re Leone”, una storia universale. Si capisce, quindi, come il capolavoro del ’94 meriti un posto a sé nel ricco panorama dei classici Disney. E che per raccontarlo, sia necessario fare riferimento a più di una fra le dimensioni entro le quali il film si presta ad essere interpretato. Noi ne sceglieremo tre, in omaggio al bel formato tridimensionale in cui in queste settimane il film viene riproposto nelle sale: la dimensione letteraria, storico-politica e filosofica.
Ed è impossibile non cominciare dal riconoscimento del retroterra culturale che una pellicola così “letteraria” porta con sé. C’è certamente tanto Shakespeare, con il suo Amleto che mette in scena non solo il rapporto conflittuale fra due fratelli ma anche il senso del dovere del principe di Danimarca che cerca di fare luce su quanto accaduto nella sua famiglia e sfida lo zio per legittimare la propria ascesa al trono; ma anche con altri testi, come il Riccardo III, incentrati sulle oscure trame di potere che sempre si sviluppano all’ombra della corona. Eppure, ancora prima, si può scorgere nel ritorno di Simba alla rupe dei Re per combattere l’usurpatore, la figura del ritorno dell’antico Oreste, figlio del mitico re Agamennone, il cui compito fu quello di uccidere la madre Clitemnestra che, insieme all’amante Egisto, aveva assassinato il marito. Ed ecco che le radici di un film d’animazione affondano nella più antica delle tradizioni, quella greca. Un’eco della storia di Simba e del suo percorso di redenzione può essere ritrovata anche nella letteratura più recente. Viene in mente Khaled Hosseini con il suo “Cacciatore di aquiloni”, una storia di colpa e redenzione, appunto, in cui l’esule afghano Amir deve fare ritorno nel suo Paese che trova devastato e oppresso dal potere talebano, così lontano dalla prosperità di un tempo, per affrontare l’antico nemico Assef e vendicare Hassan, il compagno di giochi d’infanzia, delle cui sciagure si riteneva responsabile. Una veste letteraria e fantastica, quella de “Il Re Leone”, che non occulta però i rimandi alla Storia e a quell’ambito della vita concreta degli uomini che si chiama politica.

Non è difficile vedere nella lugubre parata delle iene davanti al perfido Scar, il loro “Führer”, e nella sua promessa che “sorgerà l’alba di una nuova era” in cui “non soffrirete più la fame” un chiaro riferimento al movimento nazista e alla sua ascesa in una Germania piagata dalla terribile crisi economica del ’29. Curioso però che qualche commentatore abbia definito “Il Re Leone” un film “terribilmente reazionario”, forse facendo leva sull’apologia della monarchia e dell’alleanza trono-altare (Mufasa-Rafiki) vista come nemica di una “rivoluzione dal basso” portata avanti dalle iene e dal secondogenito emarginato dal potere. Certo, anche la filosofia che sorregge tutta la storia, con il suo fatalismo e determinismo che agisce tanto sulla natura quanto sulla vita degli individui, potrebbe dare ragione di una simile interpretazione. Eppure, i concetti centrali della filosofia de “Il Re Leone” sono espressi già nelle prime parole del film, quelle della canzone d’apertura che accompagna il sorgere del sole nella calda savana africana: “Un bel giorno ti accorgi che esisti, che sei parte del mondo anche tu. Non per tua volontà e ti chiedi, chissà, siamo qui per volere di chi?”. Quale domanda potrebbe essere più genuinamente filosofica? Tutti noi, fin dall’infanzia, ci siamo posti le grandi domande sulla vita: “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?”, domande a cui ancora adesso fatichiamo a dare risposte. La risposta che il Re Leone dà ai quesiti sommi dell’esistenza è racchiusa nella stessa canzone (“The Circle of life” nel testo di Elton John) e prende la forma del “grande cerchio della vita”: uno sconfinato ecosistema spirituale in cui “nulla si crea e nulla si distrugge”, ma tutto resta in collegamento con tutto in una sorta di “eterno ritorno”. E questa potente concezione cosmologica fa da sfondo e inscindibilmente si intreccia a quella che è la prospettiva etica del film, esemplificata nella vicenda esistenziale di Simba, che si sviluppa come un vero e proprio “romanzo di formazione”. Un cammino non lineare, il suo, un errare che è sinonimo di errore e che attraversa fasi diverse, subendo il condizionamento di molteplici “modelli ideali”, di cui si fanno portatori i personaggi che incontra sulla sua strada. Se ne possono riconoscere tre, riconducibili ad altrettante scuole di pensiero dell’antichità classica: l’indirizzo epicureo, quello socratico-platonico e quello relativistico-sofistico.



Tutto comincia quando il trauma della tragica morte del padre porta il giovane Simba, che freudianamente ne sente su di sé la colpa, ad abbandonare il suo posto nel cerchio della vita e fuggire nel tentativo di lasciarsi alle spalle il passato. È allora che egli si rifugia dietro il rassicurante motto di Timon e Pumbaa. Ma “Hakuna Matata” è molto più di un motto, è una filosofia di vita e più precisamente racchiude l’insegnamento fondamentale di Epicuro, quello per cui vivere “senza pensieri”, lontano dai dispiaceri del mondo, nella totale assenza di dolore (aponìa) e turbamento (atarassìa), è l’unica via che porta alla vera felicità e come tale la sola eticamente accettabile.
Ma può il fuggire dal passato essere una soluzione definitiva? “Dal passato puoi scappare o imparare qualcosa”, suggerisce il vecchio Rafiki quando ormai Simba è cresciuto e soffre per l’esilio a cui si è condannato. Ed ecco che il giovane leone – e noi con lui – comprendiamo una verità fondamentale, l’autentico tesoro di questo film: il passato vive in noi, noi siamo il nostro passato e non possiamo abbandonare le nostre origini, con le quali oblieremmo il nostro stesso io e tutto quanto abbiamo di più caro. Non a caso, Simba, dimenticando se stesso, ha dimenticato anche quel padre che aveva tanto amato. “Simba, mi hai dimenticato. Hai dimenticato chi sei e così hai dimenticato anche me”. È il punto di svolta. L’apparizione di Mufasa richiama Simba alla realtà e quel “Guarda dentro te stesso, tu sei molto più di quello che sei diventato” suona come l’eco della voce antica che ammoniva: Γνῶθι σεαυτόν, “conosci te stesso”. È l’insegnamento di Socrate. Un insegnamento che stimola alla responsabilità e alla continua veglia morale, così lontane dal placido disimpegno dell’Hakuna Matata. L’intervento di Mufasa trova una sua corrispondenza ideale nella maieutica socratica, attraverso cui i pensieri profondi degli allievi venivano portati a galla; e il richiamo rivolto al figlio, “Ricordati chi sei”, rievoca il processo dell’anamnesi platonica, con il quale la conoscenza della verità diviene appunto un “ricordare” ciò che già si conosce. Allo stesso modo, il fastidioso punzecchiare di Rafiki (“La domanda è: chi sei tu?”) ricorda l’insistente interrogare del maestro ateniese, quel continuo chiedere ragione a ciascuno di qualunque cosa per portare gli uomini a rendersi conto della verità dentro di loro. Ma è proprio la verità quella che ancora sfugge a Simba, quella stessa verità che per Scar “è sempre relativa”, come egli cerca di sostenere nel momento dello scontro con il nipote. Ed ecco entrare in scena i nemici storici di Socrate: i sofisti. Nonostante abbiano regalato alla storia del pensiero teorie più che valide, essi sono ricordati come “venditori del sapere” e sostenitori accaniti di un relativismo che nel film prende la forma del fitto intreccio di menzogne dietro cui Scar ha nascosto la verità. A questo punto Simba non può che rappresentare metaforicamente l’uomo che erra tra le varie filosofie senza riuscire, se non in extremis, a ritrovare la verità nella propria vita. Egli comprende che solo tornando e diventando re ritroverà se stesso. È libero in ogni sua scelta, ma adesso comprende che la sua libertà si realizza pienamente nel prendere il proprio posto e assumersi le proprie responsabilità verso se stesso e gli altri. Non a caso tutto era iniziato con la presentazione di Simba al popolo della savana, attraverso un vero e proprio battesimo sociale dall’alto della Rupe dei Re, simbolo di potenza e regalità, ma soprattutto di riconoscimento del nuovo nato e del suo posto nel Cerchio della Vita. “Io sono in quanto mi rivedo negli altri e così la libertà diventa principio del vivere sociale e politico”, spiega il filosofo Aldo Masullo. E sulla stessa rupe tutto finisce così come era iniziato, nel silenzio, dopo l’ultima parola che risuona dalle nubi: “Ricordati!”. Adesso c’è spazio solo per il ruggito e i versi di giubilo degli animali che salutano il loro re. Ma la storia non è finita, un nuovo leoncino viene presentato ai sudditi ed è la promessa che il cerchio della vita non si chiude, che la storia continuerà.

“E’ una giostra che va questa vita che
Gira insieme a noi e non si ferma mai
E ogni vita lo sa che rinascerà
In un fiore che fine non ha”