di Ilaria Giugni
Napoli, in un futuro troppo simile ad oggi, sprofonda sotto il peso della catastrofe. Il fuoco e l’acqua s’impadroniscono dei vicoli dei Quartieri Spagnoli e delle ville di Posillipo, in un cataclisma annunciato, miniera d’oro per alcuni imprenditori, riproduzione ad inchiostro di quelli che in Italia si sono arricchiti davvero con le emergenze.
Ruggero Cappuccio racconta morte e resurrezione della nostra città in “Fuoco su Napoli” (Feltrinelli, 16 euro), con il quale ha vinto l’edizione di quest’anno del Premio Napoli.
Nonostante gli scenari apocalittici descritti, non si tratta di fantascienza, ma di un racconto vivido di una città in agonia, che però è ancora capace di far ammutolire nelle sue giornate di sole.
Napoli è lo sfondo delle vicende del popolo del “la colpa non è mia”. E’ il simbolo del paradosso: “la città del tempo controtempo. Correva quando tutto il mondo andava piano e andava piano quando tutto il mondo correva. (…) Era la città dei sorrisi abusati, finti, illogici. Era la città in cui perfino il dolore era recitato o perché la troppa sofferenza rende insensibili, o perché la si desidera pazzamente”.
Ha mille facce impossibili da conciliare: Napoli, madre di figli che la stuprano per interesse. Napoli, la città degli innamorati delusi, dove si ama gratis e si fa l’amore con le cose.
“Fuoco su Napoli”, infatti, è un racconto d’amore, anzi ancora meglio di passione: ognuno dei personaggi arde di sentimento, incomprensibile o insano che sia. Si dimena in una ricerca senza fine, sospinto dall’istinto, braccato dalle voglie, annebbiato dal desiderio.
D’altronde, bruciamo anche noi che a Napoli ci viviamo, protagonisti inconsci della decadenza raccontata da Ruggero Cappuccio.