di Marco Chiappetta
È sera a Parigi, non fa troppo freddo per un sangue meridionale, e sto tornando a casa mentre in giro non c’è un cane, se non quello bastardo legato a un palo, unico amico dei soliti clochard, ma insomma. Mi fermo davanti un diroccato e, diremmo, sfigato cinema dal nome altisonante: Majestic Bastille. Mi dico: faranno qualcosa di speciale in questa bettola. E infatti, che intuito, in piccolo, sulla porta c’è un manifesto: il giorno a seguire l’anteprima del nuovo film di Roman Polanski (“Carnage”: in Italia già bello che uscito a settembre), con in sala nientedimeno che il grande regista. Mi dico: ci vado; e compero. Ci vado, allora, e chissà perché mi aspetto che sia un grande evento. Lo è, perché “Carnage” si rivela essere un mezzo capolavoro. Ma prima di tutto, quando il cinema (vecchio stile, semplice, piccolo, bello) è strapieno di gente impaziente, “mesdames et messieurs Monsieur Polanski!”: entra l’uomo, la leggenda. Vestito spartano, sorride di cuore, sorride coi suoi piccoli occhi di uomo dell’Est, occhi che hanno visto di tutto in settantotto anni, settantotto anni (diciamo, la storia) portati con leggerezza, quasi non si vedono: un ragazzino, in pullover sbarazzino, timido, mite. Eppure il pubblico è là per lui. Una sagoma, una visione: non è solo un uomo, ma l’Uomo che ha attraversato la storia del ‘900, e ancora, un uomo che è la storia del cinema. Esiste e vive, manco fosse un monumento: e non lo sa, almeno non lo dà a vedere. Non si sbilancia, non perde tempo. Non parlerò del film, dice, quello lo vedrete tra qualche istante; parlo degli attori, quattro splendidi attori (Jodie Foster, John C. Reilly, Kate Winslet, Christoph Waltz) con i quali è stato splendido lavorare; ringrazio loro e ringrazio voi, che alle due del pomeriggio potreste fare una siesta dopo mangiato e invece siete qui in un cinema a vedere il mio film: spero solo non vi addormentiate. Risate in i e in u del pubblico francese. Il grande se ne va, applaudito. Tutto qui? mi chiedo. Per me no, devo provarci, devo vederlo bene: così mollo la poltrona e lo rincorro: perché non so. Ma sì che lo so, è per cercare di dargli dei miei lavori, robetta, robetta all’ennesima potenza nelle mani di un signor artista. È ancora sulle scale, firma un autografo, ha forse fretta di tornare a casa, nel frattempo tutti lo ignorano, non ha amici, ammiratori, almeno non adesso, e dopotutto è ora di pranzo, chi vuoi che lo veda nel diroccato cinema Majestic. E ci sono io: la storia, le epoche, i paesi, gli anni maledetti, gli eventi ci hanno separati, ma ora eravamo lì insieme. Se ci penso, non aveva senso. Non mi illudo che fosse emozionato quanto me: ma sorride e dice grazie in italiano e quasi è sorpreso di questi insulsi doni: uno di questi miei corti, gli dico, è tratto da Dickens, potrebbe apprezzarlo (memore del suo “Oliver Twist”), e c’è anche qui il mio numero di telefono, se per caso…
Ho sospettato da principio che avrebbe gettato questi miei corti (robetta, lo preciso) nel primo bidone utile. Ma, paranoia a parte (e non è questo che importa), c’è stato per me almeno un momento di grande cinema: è stato il rapido, flebile contatto con gli occhietti piccoli, infantili, stretti, sorridenti, e pieni di antichi dolori, di questo artista dalla vita pazza, e forse pazzo di vita, un uomo solo fisicamente piccolo, un gigante dal genio enorme e dall’enorme coraggio, che ancora non s’arrende ai fardelli e agli ostacoli del mondo odioso e brutale. Ha avuto la vita più straordinaria di sempre, in quell’uomo è passata la Storia: sfuggito al ghetto di Cracovia, sfuggito all’Olocausto (che non ebbe pietà dei suo genitori, chiusi e morti in lager), sfuggito alla miseria della Polonia, sale alla ribalta col cinema prima a Parigi, poi Londra, infine la sognata America; i mitici ’60 sesso droga e rock ‘n roll, e scampa ancora una volta alla mano enorme del male quando, nel ’69, mentre è a Londra, la family di Charles Manson fa una strage nella sua villa di Cielo Drive (L.A.) e stronca la vita della sua (seconda) moglie Sharon Tate, strafattissima e incinta di 8 mesi; non si tira indietro, gli anni ’70 sono quelli della gloria, e anche della corruptio, tra cui celebri festini dissoluti chez Jack Nicholson, quando fa scandalo un suo stupro su una tredicenne, e in America non può più tornare, nemmeno per ritirare nel 2002 l’Oscar alla regia per “Il pianista”; e sempre per questo stupro, per cui si è autoesiliato nel suo primo rifugio, Parigi, a scoppio ritardato (diciamo una trentina d’anni) viene arrestato a Zurigo, dove c’è l’estradizione e non è da scherzarci, ma – fortuna nella sfortuna – scampa alla gattabuia diosaperché e torna a lavorare. Nel mezzo viaggi, film epocali, avventure, donne: che non sapremo, qualcosa è avvolto nel mistero. E quell’uomo che ha fatto la storia, che ha avuto a che fare suo malgrado e in modo bizzarro col più grande dittatore della storia, col più grande assassino del ‘900, con la swinging London e la golden Hollywood e la vie en rose di Parigi (dove tuttora vive, pare tranquillamente e sposato), ma soprattutto l’artista maledetto che ha fatto della sua vita e della sua arte una lotta suprema, all’ultimo sangue, senza mai cadere, era vivo, e vicino a me: e tra l’altro, il mondo alla rovescia, ha dei miei film in mano, fa domande lui a me, ma soprattutto sa che esisto, ha anche pronunciato il mio nome leggendolo (non gliene farò una colpa per averlo storpiato), insomma piccoli piaceri di seconda mano per un insicuro. Mi sono trovato a guardarlo dall’alto in basso questo uomo anziano e mingherlino: e aveva il dono del silenzio, della grazia, della gentilezza, il lampo vivace di una gioventù non più anagrafica, gli occhi passionali di un uomo che sa cos’è la bellezza e può crearla, e che ha sofferto l’ira di Dio in questa sua vita odissea, e che à la Victor Hugo crea per ricordarsi (“Macbeth”, “Il pianista”, “Oliver Twist”, etc.).
Non vedrà mai i miei film, ho pensato, ma pazienza, intanto io mi vedo il suo. Ho parlato di una cosa da niente come fosse qualcosa di brillante, ora farò l’inverso: parlo del suo film, un qualcosa di brillante e assolutamente bellissimo, in poche parole, come fosse niente. È una commedia di quelle cattive bestiali nerissime spietate che risvegliano l’anima più cinica dell’uomo: dalla piéce di Yasmina Reza “Il dio della carneficina”, è un vero e proprio massacro verbale l’incontro pseudo riconciliatorio di due famiglie borghesi newyorkesi (da una parte l’isterica pignola Jodie Foster e il mediocre bonaccione John C. Reilly; dall’altra la falsissima formale Kate Winslet e l’insopportabile presuntuoso Christoph Waltz) dopo che il figlio dei primi è stato battuto malamente dal figlio dei secondi. Roba da niente, roba da formalità e tante scuse: no, per carità. In principio cordiali, cortesi, formali, secondo il rituale borghese: poi il malessere s’insinua, l’orgoglio vale oro, ed è la guerra cruda. Lotta all’ultimo sangue a chi la spara più grossa, a chi offende più, a chi insinua più forte: lotta di tutti contro tutti, cane mangia cane, mariti contro mariti, mogli contro mogli, mariti contro mogli, e viceversa, fino all’infinito. Il grottesco diventa sublime, le false, bigotte, ridicole convenzioni borghesi sono rovesciate, bestemmiate, derise, umiliate: uno schiaffo pesante e maligno al ceto medio e mediocre, che pure dovrebbe essere la cosiddetta élite a cui è destinato il film. Avrà forse la funzione di catarsi? Il pubblico francese risponde questa volta con risate in a e in e (talvolta anche in dittongo ou), segno che la commedia è davvero commedia (di solito questi ridono per un nonnulla: e si vede che non conoscono Totò e Alberto Sordi), e anch’io ho riso che più non smettevo. E mi sono sentito anche un po’ in colpa, e turbato, e talmente elettrizzato dalla visione di questo film (breve, piccolo, ma pieno di genio: come Polanski), che ci ho pensato tutto il giorno ripassandomi alla mente dialoghi e gag, ed ero talmente divertito e distratto che quando sono uscito dal cinema mi sono dimenticato di fare una cosa che pure mi stava parecchio a cuore: controllare i bidoni dell’immondizia per vedere se c’erano i miei dvd. Nel dubbio ora, come una quattordicenne innamorata, fisso con ansia e senza speranza il cellulare in attesa di una telefonata dal piccolo gigante polacco.