di Gianmarco Botti & Renata Rallo
Alzi la mano chi può dire di non aver mai imparato nulla da un cartone animato. Difficilmente qualcuno avrà un tale ardire e, anche se lo avesse, sarebbe smentito dai fatti. Perché se è vero che la settima arte, attraverso le immagini e le storie messe in scena sullo schermo, forma gli individui in maniera profonda, spingendosi a toccare finanche le corde dell’inconscio, questo non può non valere anche per il cinema d’animazione. Tanto più se si presume che la prima volta che ciascuno di noi ha provato l’emozione di vedere, a casa o al cinema, uno dei grandi capolavori Disney, sia stato in tenera età. E qual è il messaggio che in particolare a noi bambini degli anni ’90 la fabbrica dei sogni ha rivelato anno per anno, con un capolavoro dietro l’altro, accompagnando la maturazione della nostra coscienza etica e civile? È sicuramente il più semplice, il più antico, il più radicato nella cultura moderna, eppure il più profondo e importante di tutti: il rispetto dell’altro, chiunque egli sia. E specialmente di quell’altro per eccellenza che è il diverso. L’intera parabola del cosiddetto “Rinascimento disneyano” (l’ultimo decennio di produzione del secolo scorso, per capirci) non è altro che la declinazione, nelle più diverse forme e narrazioni, dei principi aurei della tolleranza, dell’accoglienza, del rifiuto di ogni discriminazione di cui il tema del “diverso” si fa portatore. Ma chi è il diverso secondo la Disney? Diverso da chi, da cosa e perché?
“Chi è questa creatura?” – “Chi?” – “Che cos’è?” – “Cosa?” – battibeccano lo zingaro Clopin e la sua marionetta in apertura di uno dei film di cui avremo occasione di parlare a breve. “E’ un racconto, il racconto di un uomo e di un mostro”. Uomini e mostri, belle e bestie sono i protagonisti indiscussi di storie in cui gli eterni sentimenti umani dell’amore e della repulsione, della solidarietà e dell’intolleranza si fronteggiano in una sfida drammatica. Appare subito in primo piano, dunque, quale sia la diversità che più di tutte sta a cuore alla Disney: la diversità fisica, l’individuo brutto, mostruoso e per questo emarginato dalla società. Un tema delicato e complesso nell’affrontare il quale la Disney non può prescindere da tutta una tradizione che con Umberto Eco potremmo rappresentare nei due rami specularmente opposti della “storia della bellezza” e “storia della bruttezza”. Nell’antichità classica il bello (καλὸς) era conseguentemente anche buono (ἀγαθός) secondo il principio, estetico ed etico ad un tempo, della “kalokaghatìa”. Ecco perché l’immaginario greco vuole gli infermi e i menomati come personaggi malvagi: viene in mente lo storico Efialte, traditore dell’esercito spartano nella celebre battaglia delle Termopili e ricordato come un pastore storpio; o ancora l’epico Tersite, famoso per la sua bruttezza e codardia, a cui Ulisse si rivolge con queste parole: “consigliere scriteriato […] non penso infatti che uomo peggiore di te ci sia, fra quanti con gli Atridi son venuti all’assedio di Troia”; a figure del genere si contrappone la schiera dei “belli e buoni”, capaci di grandi gesta e nobili azioni: Alcibiade, Achille, Ettore, Anchise…
È stata la rivoluzione cristiana, che ancora impregna così tanto di sé l’età moderna, a cambiare le cose: la considerazione dell’animo e delle intenzioni umane si fa più profonda, slegandosi progressivamente dalla fisicità, l’assioma per cui bello = buono viene superato, quel che conta è l’interiorità. I diversi, gli emarginati, gli ultimi vengono messi al centro perché solo loro potranno godere della luce di Dio. E’ il testo fondamentale del Cristianesimo, il Discorso della montagna, a stabilirlo una volta per tutte: “Beati gli afflitti, perché saranno consolati […] Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”. “La vera bellezza si trova nel cuore”, recita l’incipit de “La Bella e la Bestia”, che fra i grandi classici degli anni ’90 occupa senza dubbio un posto d’onore. E quella che sembra solo una frase d’effetto diventa una lezione da imparare nell’arco dell’intera narrazione, attraverso l’esperienza di un principe piuttosto lontano dallo stereotipo disneyano: a dispetto della sua beltà, egli non ha né nobili sentimenti né coraggio, ma viene qualificato fin dall’inizio come “viziato, egoista e cattivo” e tale si dimostra nei confronti di una vecchia che bussa alla sua porta chiedendo ospitalità e per questo, una volta che ella si rivela essere una “bellissima fata”, viene trasformato in un’“orrenda bestia”. Il principe, o meglio, la Bestia, sarà d’ora in poi condannato a guardare oltre le apparenze, ad imparare ad amare e sperare che altri usino verso di lui, nonostante il terrore suscitato dal suo aspetto mostruoso, la misericordia e l’affetto che egli stesso aveva sempre negato, pena il restare per sempre bestia. Il punto di svolta è quando viene a contatto con Maurice, un inventore considerato pazzo o quantomeno stravagante dai suoi compaesani. Egli è il padre di Belle, fanciulla acculturata e solitaria, anche lei esclusa dalla vita del paese in quanto “diversa”, troppo incline a rifugiarsi nel suo mondo di fantasia. “Quella ragazza è proprio originale”, cantano sospettose le comari al suo passaggio. La Bestia, Maurice, Belle hanno questo in comune: tutti e tre sono emarginati perché considerati diversi dalla gente comune e quindi etichettati come pericolosi, folli, strambi.
Ed è forse per questa ragione che Belle, così a disagio nel paese in cui vive, troverà il suo “ambiente ideale” nel castello della Bestia, verso la quale a poco a poco comincerà a provare anche una certa simpatia, intesa nell’accezione greca del termine: loro, che soffrono insieme perché si sentono diversi dal mondo che li circonda, si uniranno in un vincolo sempre più stretto, che diventerà amore nel momento in cui la delicatezza della ragazza porterà la Bestia a compiere atti di assoluta bontà e dedizione. E il simbolo della loro comune emarginazione è proprio il castello nel bosco in cui la Bestia vive relegata coi suoi servitori. Nessuno conosce questo posto incantato fino al momento in cui i cittadini del paese non ne scoprono l’esistenza attraverso uno specchio magico. Ed è ancora la tradizione classica ad illuminarci su questo aspetto: per i greci l’uomo è per sua stessa natura sguardo, è ciò che si offre allo sguardo degli altri, si è solo in quanto si è visti. Pertanto si comprende come i cittadini fin quando non “vedono” con i loro occhi, non “sanno” neppure dell’esistenza della Bestia e del suo castello. L’unico sguardo che riesce ad andare al di là delle apparenze è però quello di Belle, la sola che riuscirà a vedere nella Bestia qualcosa di più di un mostro. La “kalokaghatìa” è abbandonata per sempre: solo diventando bestia il principe può diventare veramente buono, amare ed essere amato e quindi tornare ad essere principe. Nel suo saggio dal titolo evocativo “Aphrodite’s Justice”, il filosofo americano James Hillman segnala come il Cristianesimo abbia a tal punto accentuato la scissione di bello e buono da far divenire il bello addirittura peccaminoso, cattivo. E anche il pensiero moderno concorda se è vero che, come afferma Max Weber, “qualcosa può essere bello non soltanto senza essere buono, ma per il fatto che tale non è”. Non stupisce dunque trovare, come antagonista del nostro eroe così antieroico, brutto ma buono, Gaston, il classico belloccio che tutte le donnicciole del paese vorrebbero sposare, ma non Belle. E questa sua scelta porterà Gaston e la Bestia allo scontro inevitabile, in cui bellezza e mostruosità, bontà e perfidia per un momento sembrano quasi confondersi finchè ogni cosa recupera il proprio posto e gli schemi mentali del pregiudizio sono ribaltati. Evidentemente il mostro non è quello che ci appare tale. È la risposta che un’altra vicenda, firmata dagli stessi registi e anch’essa ambientata nel Medioevo francese dà alla domanda capitale: “Chi è il vero mostro”? “Chi è brutto dentro o chi è brutto a veder?”.
È la storia di Quasimodo, “il gobbo di Notre-Dame”, in cui il tema della diversità e dell’emarginazione si arricchisce di ulteriori particolari e viene analizzato attraverso una lente più “matura”, come si addice alla trama, attinta dal cupo e tragico romanzo di Victor Hugo. E anche se la versione animata ammorbidisce parecchio l’immagine cruda e impietosa del protagonista, la cui anima nel romanzo riflette l’abbrutimento del corpo, il campanaro gobbo segna rispetto alla Bestia un’evoluzione verso un superiore realismo: per quanto sgraziato e deforme, egli è pur sempre un uomo, un uomo vero e non un animale umanizzato; egli è nato così e nessun incantesimo lo trasformerà in un bel principe, neppure dopo che avrà dimostrato con i suoi buoni sentimenti di non essere un mostro; è per questo che il lieto fine per Quasimodo non potrà consistere nel coronamento del suo sogno d’amore con la bella zingara Esmeralda (la quale sceglierà il biondo Febo, che se non è proprio un principe almeno gli somiglia), ma solo, e non è poco, nella sua ammissione nel consesso di una società dalla quale si era sempre sentito escluso, vivendo come prigioniero nel campanile della cattedrale. Ma all’emarginazione dell’individuo in quanto diverso, in questo film si affianca anche quella di un’intera etnia: gli zingari fanno parte con Quasimodo della vasta schiera dei reietti, i “miserabili”, per rimanere nell’universo di Hugo, disprezzati da tutti e privi di ogni forma di aiuto. “God help the outcasts”, canta Esmeralda in un film in cui i rimandi al Cristianesimo sono tanti e molto espliciti. Lei e il suo popolo, come già gli Indiani in “Pocahontas”, sono oggetto di una vera e propria persecuzione.
A portarla avanti è il giudice Frollo, il malvagio tutore di Quasimodo, tenebrosa incarnazione dell’intolleranza nemica di ogni diversità. A metà fra il grande inquisitore e il monarca totalitario, un po’ Torquemada e un po’ Hitler, xenofobo, sessuofobo, bigotto, reazionario, egli cresce Quasimodo nella convinzione di non potersi integrare nel mondo “là fuori” e pertanto di dover rimanere per sempre nel campanile. Animato da un odio viscerale per gli zingari e da un altrettanto viscerale passione per Esmeralda, dà loro la caccia con metodi che ricordano le strategie messe in campo dal Terzo Reich contro gli Ebrei. Frollo è la degna espressione politica di una società chiusa e razzista: quella dei secoli bui del Medioevo, dove il fanatismo religioso imperversava e, attraverso esecuzioni sommarie e roghi pubblici, si lanciava in violente crociate contro gli eretici e folli cacce alle streghe; quella di epoche più recenti ma non per questo più luminose, come il Novecento delle persecuzioni portate avanti in nome del mito della razza, fino ai giorni nostri in cui i vari leghismi, fascismi e conati xenofobi sembrano lungi dall’esser sopiti. Ma su cos’è che l’intolleranza al potere può fare affidamento, da dove trae la sua forza per poter dar luogo a una sistematica discriminazione e persecuzione delle minoranze? La storia dell’umanità insegna che dietro ogni tiranno vi è sempre un popolo che in qualche modo permette che egli eserciti la sua tirannia. Così è stato nel Novecento col fascismo in Italia e con il nazionalsocialismo in Germania. Nessuno perciò deve stupirsi a pensare che un folle come Hitler fu regolarmente eletto e in larga parte sostenuto dalla nazione tedesca nei suoi atroci crimini contro l’umanità. E la folla, questo “animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusione, sanza gusto, sanza deletto, sanza stabilità”, come la descrive Guicciardini, incline a seguire il volere della pancia più che della ragione, ha un ruolo centrale in entrambi i film di cui si sta parlando. Toccata nelle sue paure più profonde dal terrorismo psicologico di Gaston, non esita ad imbracciare tizzoni ardenti e forconi per andare all’assalto del castello e liberare il villaggio dal mostro, alla maniera dei contadini del celebre “Frankenstein” di Mary Shelley. Ancor più pericolosa nella sua volubilità si rivela la folla di Parigi nei confronti dello sventurato Quasimodo: in un attimo passa dall’euforica acclamazione del gobbo come “Re dei Folli”, ad un divertimento macabro e intollerabile che consiste nel torturarlo e schernirlo sulla berlina della piazza; allo stesso modo, alla fine del film, basterà un gesto di accoglienza e comprensione da parte di una bambina, perché arrivi finalmente su di lui la benedizione della comunità e la definitiva accettazione sociale. La folla è come un fenomeno naturale imprevedibile e impetuoso, magistralmente descritto da Manzoni del capitolo XII de “I Promessi Sposi”: “gocciole sparse sullo stesso pendio, si muovono a branchi spinti come flutti da flutti, nella tempesta delle grida, il torrente penetrò per tutti i varchi”.
La sua unità e la sua forza irrazionale si fondano sulla necessità di proteggersi dal pericolo, reale o immaginario che sia, e per questo ha bisogno di un capro espiatorio su cui riversare la propria rabbia, identificato sempre in chi viene percepito come un corpo estraneo, nel diverso. E alla furia delle masse che si accanisce sui deboli e gli emarginati chi potrà mai opporsi? Un sussulto di dignità e coraggio, di amore verso il prossimo è l’unica forza che può spezzare il giogo della discriminazione. Un singolo individuo contro tutta una società. La battaglia è meno impari di quanto si pensi. E così la figura di Esmeralda che interviene in difesa della vittima della crudeltà generale e alla minaccia del potere che reprime – “Silenzio!” – oppone la voce ferma e senza paura di chi sa di essere dalla parte giusta – “Giustizia!” – appare il modello di tutte le azioni di disobbedienza civile che, attraverso la contestazione nonviolenta, hanno scardinato sistemi che apparivano inamovibili. La zingara che si rifiuta di scendere dalla berlina è tanto simile a quella signora afroamericana, quella Rosa Parks che, non accettando di lasciare il proprio posto sul pullman ad un bianco, diede inizio ad una colossale protesta contro la discriminazione basata sul colore della pelle. Basta poco, andare oltre le apparenze, colmare le distanze con gesti di solidarietà e per intolleranza e razzismo non ci sarà più spazio. Eppure non è sempre facile liberarsi dai vincoli delle convenzioni sociali e lottare per ciò che è giusto. Non a caso, se il gobbo potrà finalmente uscire da Notre-Dame, sarà grazie alla spontaneità e limpidezza che solo i bambini possono avere e che sono le uniche forze in grado di superare tutte le barriere. Forse la Disney non ha tutti i torti: magari è il caso di rimanere un po’ bambini…