di Vincenzo Sorrentino
Restano ancora due settimane per godere della mostra “Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del ‘400”, allestita alle Scuderie del Quirinale, e attraverso la quale il pittore Lippi, nato a Prato nel 1457, ma attivo anche a Firenze, in Toscana e a Roma, ottiene il riconoscimento e la rivalutazione che merita.
Figlio di un prete e di una monaca (sì, proprio così!), Filippino fu impiegato dapprima nella bottega del padre Filippo e, alla sua morte, in quella del più famoso allievo del padre: Sandro Botticelli.
Il confronto con quest’ultimo, di dodici anni più grande di lui, permise a Filippino di dar prova di tutto il suo talento, assimilandone lo stile e le tecniche pittoriche.
La mostra si sviluppa su due piani, come tutte le esposizioni realizzate nelle Scuderie, e segue gli sviluppi della pittura di Filippino dagli esordi, coincidenti con la “maniera” del padre, attraverso il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico, gli affreschi fiorentini in Santa Maria Novella nella cappella Strozzi e quelli romani per la cappella del cardinal Oliviero Carafa in Santa Maria sopra Minerva, fino agli ultimi anni e alla creazione di una bottega sul modello di quella paterna. Le varie fasi della vita e della pittura dell’artista sono distinte, nell’allestimento degli ambienti, attraverso il ricorso a differenti tinte pastello che caratterizzano ciascuno di essi: si attraversano sale dal giallo al rosso acceso, dall’azzurro al verde acqua.
La mostra, curata da Alessandro Cecchi, direttore della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, ha la peculiarità di offrire al visitatore un saggio di metodologia e di ricerca storico-artistica, attraverso l’inserimento nel percorso espositivo di documenti provenienti da vari archivi italiani che attestano i dati riportati nei pannelli informativi all’inizio di ciascuna sezione. La scelta di introdurre simili pezzi archivistici, puntualmente trascritti per consentirne la facile lettura al pubblico, “alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue” il lavoro degli storici dell’arte. La sola presenza di quei documenti potrebbe sfatare il mito di uno storico dell’arte semidivino che con il solo “occhio” desume datazione, mano e provenienza dell’opera, senza alcun appiglio a fonti certe e consultabili da altri.
L’esposizione, però, riporta una presenza assai inferiore del secondo pittore rispetto al primo, che, se certamente non ha bisogno di essere presentato al pubblico, nemmeno doveva fungere da mero richiamo e che, di certo, avrebbe potuto essere rappresentato da opere più numerose e significative. Resta interessante, tuttavia, il confronto tra le due versioni affrontate del medesimo soggetto – l’Adorazione dei Magi – l’uno di mano di Filippino e l’altro di Botticelli.
Tra le opere più belle e che incantano il visitatore – che comprende, tra l’altro, perché Filippino non ha niente da invidiare a Sandro – ci sono il “Tondo Corsini”, del diametro di 173 cm, di proprietà della Cassa di Risparmio di Firenze, e l’”Apparizione della Vergine a San Bernardo”, proveniente dalla cappella di Piero del Pugliese nella Badia fiorentina, anch’essa, con i suoi 210×195 cm, dalle dimensioni eccezionali.
Il Tondo, datato 1482-1483 e il “più grande tondo del Rinascimento che ci sia giunto”, presenta una composizione di una straordinaria asimmetria con la Vergine in piedi con il lungo velo trasparente che cade a terra (nella sua mirabile resa è evidente la lezione fornita dalle Madonne di Filippo), con il Bambino in braccio che fruga tra i fiori offertigli da un angelo alla sua destra. Altri quattro angeli si dispongono a formare due gruppi ai lati della Madonna, la cui figura è incorniciata in una nicchia classicheggiante, mentre a sinistra San Giovannino e una lunga fuga prospettica aprono l’ambiente a un paesaggio esterno.
È la pala fiesolana, però, a monopolizzare l’attenzione del visitatore che la intravede fin dalla prima sala come se fosse la pala d’altare di una chiesa. L’”incontro” tra il santo, fondatore dell’ordine cistercense, e la Vergine è di un grande lirismo calato in una realtà quotidiana. Il monaco in abito bianco è intento a scrivere all’aperto, in una sorta di studiolo da umanista ante litteram (per i tempi di Bernardino, ma non per quelli di Filippino), e viene distolto dalla mano della Vergine posata sul suo codice miniato. Sulla destra, uno stuolo di angeli dalle ali e dalle vesti variopinte segue la Vergine, mentre in basso il committente, Piero di Francesco del Pugliese, ha l’onore di assistere anch’egli all’apparizione. Sopra quest’ultimo, due personaggi maligni, un diavolo che morde una catena e un gufo, in una grotta, si ribellano al lieto evento che sta avvenendo sotto i loro occhi. A loro volta, i monaci del neonato ordine cistercense, collocati in alto a destra della tavola, colti in scene di vita in comunità, avvertono l’evento miracoloso, senza che sia loro concesso di vederlo. Tutta la scena è resa con un estremo nitore e in una luce che doveva apparire ancor più strabiliante nell’originaria destinazione, nel Monastero delle Campora, distrutto tra 1528-29.
La mostra si può considerare un ambizioso e, probabilmente, fra i più riusciti tentativi di dare una fisionomia autonoma e ben definita a quel pittore che 112 anni fa lo storico dell’arte statunitense Bernard Berenson definiva genericamente “amico di Sandro”. Un artista creato dal grande studioso che gli attribuì numerose opere di Filippino, senza arrivare ad attribuire allo stesso Filippino quei quadri tanto filippineschi. L’abbaglio di Berenson non è, tuttavia, da biasimare, visto che ha impegnato e impegna tuttora generazioni di storici dell’arte in una riesamina della sua produzione. In questo modo Filippino potrà, giustamente, riscattare l’”infamia della nascita sua” che – come ci scrive Vasari – anche dai suoi contemporanei, in virtù di una vita onesta, era stata quasi dimenticata al punto che, in occasione del suo funerale nel 1504, gli furono tributati grandi onori nemmeno di trattassero di “essequie dè principi”.