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“Si muove come una scimmia, ma sembra un uomo”

di Gianmarco Botti & Renata Rallo

“Il selvaggio, fluente e amico, chi è? E’ uno che aspetta ancora la civiltà, o l’ha superata e la domina?”, si chiede Walt Whitman nel suo capolavoro ”Foglie d’erba”. 
E la domanda è una delle più controverse e difficili che l’uomo si sia mai posto. Perché è una domanda su se stesso. Chi è veramente il selvaggio? Uomo come noi? Un animale che ci assomiglia troppo? E quanto ancora c’è di selvaggio in noi, uomini e donne del 2000, abituati ormai da millenni a guardare gli animali dall’alto in basso e la natura dal superiore punto di vista della civiltà?
Il termine “selvaggio” è equiparabile per estensione a quello di “straniero” , in greco βάρβαρος, che nell’accezione classica stava ad indicare coloro i quali non parlavano la lingua greca e per tanto non facevano parte della comunità. La comunità per i greci era tutto, la comunità era la politica, il sociale, la vera vita. Coloro che non vi partecipavano o erano per l’appunto i “barbari” oppure coloro che si dedicavano a lavori manuali (questo perché la fabbricazione di oggetti non rientrava tra le attività politiche a causa della propria natura utilitaristica).
 Il parallelismo è presto fatto. La nostra società, seppur sotto infiniti aspetti diversi da quella antica, è ciò che ci rende individui sociali e capaci di vivere in modo associato e per tanto coloro che non ne fanno parte non possono che essere considerati “fuori dal mondo”.
 La differenza però è altrettanto ovvia: mentre nell’antichità i “barbari”, i “selvaggi” erano emarginati e non considerati degni neanche di cittadinanza, “recenti” avvenimenti di cronaca hanno mostrato come la scienza, la filosofia e la psicologia si siano invece interessate alla questione dell’ “anello mancante”, il legame cioè tra uomo e la natura che la cosiddetta “civiltà” credeva di aver spezzato definitivamente. Ci riferiamo infatti agli avvenimenti riguardanti i bambini-animali: casi in cui sono stati trovati ragazzi e ragazze che vivevano allo stato brado cresciuti da animali. Tra questi, ricordiamo quando nel 1798 nei boschi dell’Aveyron fu rinvenuta una creatura di età apparente di dodici anni, assolutamente priva di linguaggio e atteggiamenti umani, incapace di parlare e di camminare eretta, senza idee né attitudine al pensiero, eppure indubitabilmente umana oppure le due ragazze-lupo del 1920 o addirittura il ragazzo-gazzella nel 1960, ma ciò che accomuna tutti è che i ragazzi cresciuti senza “educazione civile” non sono mai riusciti ad integrarsi nonostante fossero stati strappati dalle “famiglie adottive” e fossero loro stati assegnati pedagoghi e psicologi allo scopo di aiutarli ed educarli. Il risultato è stato sempre o la morte prematura oppure l’incapacità di relazione conseguentemente alla conservazione delle abitudini animalesche quali il latrare o il preferire la carne cruda mangiata in un angolo, ringhiare, mordere e il netto rifiuto per indumenti e la postura eretta.
 Di quello che potrebbe essere definito uno dei pochi misteri rimasti all’uomo che conosce molto dell’universo, degli astri e del proprio pianeta, ma evidentemente ancora troppo poco di se stesso, arte, letteratura e cinema hanno sicuramente subito il fascino. Ecco dove nascono opere d’arte come i capolavori del periodo polinesiano di Paul Gauguin, uno dei quali porta non a caso il suggestivo titolo “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”; ecco dove nascono, fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, romanzi di grande successo presso il pubblico adulto e quello infantile come “Il Libro della Giungla” di Rudyard Kipling e “Tarzan delle scimmie” di Edgar Rice Burroughs, nei quali il cinema ha trovato ispirazione per più di una pellicola.
Storie di ragazzi cresciuti nella foresta dagli animali selvatici non potevano non destare l’interesse della Disney che in queste vicende ha trovato il proprio “anello mancante”, quello fra il mondo degli animali e il mondo degli uomini che nei suoi film aveva sempre cercato di unire senza mai riuscire a fonderli completamente. Ecco dunque, nel 1967, nell’ultimo lungometraggio al quale collabora lo zio Walt in persona (la sua scomparsa avviene nel dicembre 1966), spuntare il piccolo Mowgli, orfanello rinvenuto da Bagheera la pantera in una barca arenata sulle rive del fiume e adottato da un branco di lupi che lo allevano come uno di loro. “Cresceva a vista d’occhio, sano e robusto come può crescere un ragazzo che non ha lezioni da studiare e niente al mondo da pensare se non come procurarsi il cibo”, annota Kipling nel romanzo con la sua tipica ironia. Il bambino cresce visibilmente inserito nell’habitat a lui non naturale eppur familiare ma i problemi iniziano quando Shere Khan la tigre minaccia la vita del ragazzo perché “odia l’uomo per istinto” e “ha paura dei suoi fucili e del suo fuoco”. Ed ecco che per la prima volta si configura la separazione dolorosa e il conflitto inevitabile fra il “cucciolo d’uomo” e la giungla, fra la natura selvaggia e l’uomo che si civilizza.
 All’esperimento che gli scienziati di Parigi si proponevano di fare sul ragazzo dell’Aveyron, “determinare quali sarebbero il grado di intelligenza e la natura delle idee di un adolescente privato fin dall’infanzia di ogni educazione e vissuto nel più completo isolamento dagli individui della propria specie”, la Disney risponde in maniera chiara: l’uomo, anche se allevato dagli animali, resta comunque uomo e come tale deve stare (o ritornare) fra i suoi simili. Così l’intero film si sviluppa da questo punto in poi come un cammino di crescita che Mowgli, anche se controvoglia, deve compiere per giungere infine al “villaggio degli uomini”, meta di un percorso di maturazione tanto rifiutato quanto inevitabile. La giungla è l’isola che non c’è, “il mondo perduto” (per dirla con Conan Doyle) dell’infanzia, un meraviglioso quanto utopistico sogno di comunione totale con la natura che l’uomo presto o tardi deve abbandonare. Mowgli non è Peter Pan. La sua è una crescita difficile, certo, che passa attraverso lo scontro fra le istanze rappresentate dalla saggia Bagheera e l’orso Baloo. Quest’ultimo con il suo motto “Ti bastan poche briciole” (precursore dell’Hakuna Matata di leonina memoria) propone a Mowgli una strada alternativa a quella che porta al villaggio degli uomini, la promessa di diventare un vero orso. Per riprendere il lessico freudiano, se Baloo rappresenta il “principio di piacere”, la voce di Bagheera è sicuramente quella del “principio di realtà”: “Tu non puoi prendere Mowgli come figlio adottivo. Ognuno deve stare con quelli fatti come lui. Tu, per esempio, la sposeresti una pantera?”.
La realtà e la ragione impongono che l’uomo di affranchi dalla natura e vada verso la civiltà. Mowgli non ne ha voglia ed ecco che in suo “aiuto” accorre il simpaticissimo Re Luigi che, cantando “Io voglio diventar uomo e andando giù in città, sentirmi fra i miei simili, son stufo di star qua”, propone al ragazzo uno scambio: “Insegnami il segreto del rosso fuoco dell’uomo”, e io ti farò restare nella giungla. Ancora il fuoco dunque, quello che terrorizza tanto la tigre, entra in ballo come ciò che differenzia l’uomo dalle bestie: è la tecnica infatti che gli ha permesso di emanciparsi da esse. L’uomo sarebbe uomo in virtù delle armi che riesce a fabbricarsi. “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”, è l’amara constatazione del poeta Quasimodo, che sembra dare ragione ai pessimisti di tutti i tempi sulla natura umana. Freud stesso denuncia i rischi del “disagio della civiltà”, del riemergere di quell’insieme di pulsioni e istinti naturali che covano sempre sotto la patina di autocontrollo dell’uomo civilizzato, e che né la legge né la morale riescono mai del tutto a reprimere: l’uomo in fin dei conti resta “una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto della propria specie” e “la società incivilita è continuamente minacciata di distruzione”. 
Una bestia, uomini contro uomini. Quante volte abbiamo sentito citare le massime “homo homini lupus” oppure “bellum omnium contra omnes” con cui Hobbes giustificava la necessità della creazione di un “contratto sociale” affinché gli uomini, spinti da principi e di libertà concordi, non si facessero guerra tra loro a causa della loro natura selvaggia? Riflettendo su questo non possono non tornarci alla mente gli esempi che abbiamo riportato precedentemente, i ragazzi cresciuti senza civilizzazione sono sempre rimasti ostili e violenti. E mestamente ci ritroviamo davanti alla necessità di sfatare il mito de “il buon selvaggio” tanto caro all’illuminismo secondo il quale appunto l’uomo avrebbe bisogno di un’educazione solo parziale e ben lontana dai canoni “cittadini” (non a caso Rousseau nel suo trattato pedagogico “Emilio” immagina che il luogo ideale per l’educazione sia la campagna, il più lontano possibile dalla società) e che l’umanità senza i freni della civilizzazione sarebbe nell’essenza buona. L’uomo nel profondo resta sempre un selvaggio.
 Interessantissimo ed assolutamente pertinente l’intervento di Masullo in una delle sue ultime lezioni “Se io non fossi cresciuto in mezzo a persone adulte di cui avrei visto il sorriso, imparato la parola […] io non sarei diventato io.” E ancora, chiede provocatoriamente: “Io sono diventato io prima del rapporto con gli altri o nel rapporto con gli altri?” 
La risposta che ne da il film è chiara: Mowgli dunque deve far ritorno “al villaggio degli uomini” affinché prenda parte alla vita che gli spetta quale uomo in mezzo agli uomini.
 Se il cammino di Mowgli era già scritto e il suo posto era fra gli uomini opposto nella sua conclusione c’è un altro film: “Tarzan” (1999). 
Qui si racconta di un ragazzo, figlio di naufraghi inglesi uccisi da un leopardo, che viene cresciuto nella giungla dalla gorilla Kala contro il parere del capobranco Kerchak (si ripropone ancora la dialettica che era stata quella di Baloo – Bagheera) e fa di tutto per diventare “la scimmia migliore che c’è” senza avere idea dell’esistenza della sua specie. 
Quando lo scopre il conflitto fra i due mondi si fa inevitabile e, fatta eccezione per la bella Jane e l’adorabile prof. Porter, il branco di scimmie si rivela molto più “civile” dei visitatori umani che costituiscono la ciurma di bracconieri capitanata dal perfido Clayton.
È in particolare il confronto fra quest’ultimo, un’ambigua guida inglese che occulta dietro i suoi modi da lord e l’umorismo tipicamente british l’avidità del cacciatore di frodo, e il nostro protagonista a chiarirci le idee. In una delle ultime scene quando è giunto il momento della resa dei conti e i due antagonisti si trovano su un albero con Tarzan che è riuscito ad impossessarsi del fucile puntato contro la gola di Clayton, quest’ultimo incita “il selvaggio”: “Coraggio, sparami: sii uomo!”. Ma Tarzan, fracassando l’arma grida contro il suo nemico: “Non un uomo come te!”. 
Qui la natura vince sulla civiltà. Il finale è quindi scontato: dopo aver provato una volta ad indossare abiti da gentiluomo inglese ed aver visto com’è andata a finire, Tarzan preferisce riprendere il suo perizoma e tornare definitivamente nella giungla. Il villaggio degli uomini, la grande Londra tanto vagheggiata, non fa per lui. Ed è singolare notare come, in maniera assai sorprendente, anche i civilissimi Jane e padre sceglieranno di rimanere, gettandosi in mare prima di giungere alla nave che li porterà in Inghilterra e nell’ultima scena vediamo anche loro destreggiarsi fra le liane in compagnia di gorilla ed elefanti festanti. 
Con Tarzan la nuova sensibilità “ecologista” della Disney viene a galla e così comprendiamo che siamo noi a dover imparare dagli animali e dai selvaggi e abbandonare un po’ di pregiudizi. Gli stessi pregiudizi che dividevano con un abisso incolmabile il mondo degli indiani e quello degli inglesi in “Pocahontas” (1995): per la tribù di Powhathan gli invasori bianchi non sono “neanche esseri umani”; per i coloni di Sua Maestà gli indigeni sono solo “sudici pagani” e “non c’è posto per certa gente in una società civile”. Quando il momento della strage appare vicino, solo l’amore della figlia del capo, Pocahontas, e del capitano John Smith riesce ad evitare il peggio. A quanto pare l’amore soltanto può restituire all’uomo, selvaggio o civile che sia, “il rispetto della propria specie” di cui parlava Freud, ed impedire la regressione a quello “stato di natura” che è la “guerra di tutti contro tutti”. 
“L’essere civili – dice Masullo – è riconoscere il dovere verso gli estranei. […] ciò che rende eticamente forti è l’amore verso gli estranei che attraverso di esso diventano “l’altro” 
L’altro inteso come “alter-ego” (un altro me), colui che non riconosciamo come nemico ma più che amico, qualcuno a cui è impossibile mentire o fare torto perché ritenuto “noi stesso”. 
“Amerai il prossimo tuo come te stesso” si legge nel Vangelo di Luca (10,27). Prossimo che, secondo Cacciari, anche nella sua traduzione latina (greco πλησίος, plesios) “ proximus” rende bene l’importanza del termine essendo un superlativo. “Non può trattarsi di un semplice ‘vicino’. ‘Plesios’ in quanto ‘proximus’ ci riguarda con una tale intensità che nessuna vicinanza, nessuna contingente contiguità potrebbero raggiungere.”
E sempre in Luca (6, 31) troviamo quella che è definita come “la regola d’oro” (“Tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro” ) che è, secondo Claude Lévi-Strauss, “il fondamento del passaggio dalla natura alla cultura perché obbliga l’uomo a passare dalla logica dello stesso, del medesimo, alla logica della scelta dell’altro” e per tanto “prescrive di uscire da sé per trattare l’altro come me, ritenendolo importante come sono io stesso” (Paul Ricoeur).
Significa in sostanza praticare azioni d’amore senza aspettare che gli altri lo facciano per primi o per contraccambio. Ed ecco come sia Pocahontas che John Smith subito si riconoscono mai divisi dall’odio ma uniti nell’amore ed è l’amore a trattenere un’educatissima ragazza inglese nella giungla e a convincere il fanciullo cresciuto coi lupi a varcare la tanto temuta soglia del villaggio degli uomini. Esso è il sentimento più “civile” di tutti, eppure anche il più “naturale”. Se ne accorge bene Mowgli, quando nei pressi di un corso d’acqua si imbatte in una creatura sconosciuta (“Guardate! Che cos’è?” “E’ il villaggio degli uomini” “Oh no, dico quella là”) e resta rapito da quel canto e da quello sguardo che non gli permetteranno più di tornare indietro. 
Lui, che non aveva mai visto niente di simile prima di allora e ne rimane estasiato all’istante, assomiglia tanto al giovane figlio di Filippo Balducci, protagonista dell’Introduzione alla IV giornata del “Decameron” boccacciano: il padre lo teneva pressoché segregato su un monte affinché non avesse interesse per “alcuna temporal cosa”, ma un giorno accetta di portarlo con sé a Firenze. Grande è lo stupore del giovane che, nel vederle, chiede il nome di tutte le cose che non aveva mai conosciuto prima, finché “per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate”. Il ragazzo desidera immediatamente di averne una in quanto “non m’è ancora paruta vedere alcuna cosa così bella né così piacevole”. 
È innegabile dunque, riassume Boccaccio, riferendosi alle donne, che l’amore sia il più naturale e quindi il più potente dei sentimenti “quando colui che nutrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario […] come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate”. Se questo è accaduto “ad un romitello, ad un giovinetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico”, forse anche per la civiltà c’è qualche speranza.