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Primarie in casa repubblicana: l’America al bivio fra moderazione ed estremismo

di Gianmarco Botti

Se dovessi seguire l’esempio di Woody Allen in “Manhattan” e dettare al registratore quelli che per me sono i “dieci motivi per cui vale la pena vivere”, probabilmente includerei anche le elezioni negli Stati Uniti d’America. Avrò avuto dieci anni quando, una domenica mattina, aprii per la prima volta un volume dell’Enciclopedia Britannica e la mia attenzione di bambino fu attratta da una pagina piena d’illustrazioni: decine di facce d’altri tempi cominciarono a fissarmi, alcune con sguardo severo, altre ironico, altre ancora con un sorriso ammiccante. Tutte con un’aria maledettamente importante. Di lì a poco avrei imparato tutti i loro nomi e li avrei ricordati secondo l’ordine dei rispettivi anni di presidenza (non è poco se consideriamo che Barack Obama è il numero quarantaquattro!). Ma quel che conta è che da quel giorno la mia passione per il paese di Washington, Jefferson e Lincoln, ma anche di Kubrick, Marilyn Monroe e Philip Roth, non è mai venuta meno, uscendo confermata ad ogni tornata elettorale. Le elezioni sono infatti un momento particolarmente intenso per una nazione che è chiamata a votare con una frequenza impressionante, in un continuo alternarsi di amministrative, primarie, elezioni di midterm e presidenziali. Una “sacra liturgia” in cui si rinnova il miracolo della partecipazione nell’ultima “democrazia ateniese” rimasta in Occidente, in cui ancora i cittadini possono dire la loro senza mediazioni riunendosi in quelle piccole “agorà” che sono i caucus. È da qui che verrà fuori il nome del prossimo “imperatore”, l’uomo più potente della Terra. Amati fino all’estremo ed estremamente odiati, gli Stati Uniti occupano infatti un posto speciale nel mondo, il cui destino dipende in larga parte dalle loro scelte e decisioni strategiche. Ecco perché, che si sia cittadini americani o meno, non può essere indifferente per nessuno se per i prossimi quattro anni l’inquilino di Pennsylvania Avenue 600 sarà ancora Obama o un esponente del Partito Repubblicano. E, nel secondo caso, farà parecchia differenza che si tratti di un moderato o di un estremista. In ballo c’è l’alternativa fra il mantenimento di un certo equilibrio internazionale, con tutti i limiti e le fragilità che lo caratterizzano, e il suo rovesciamento. Ecco perché vale la pena di gettare più di un occhiata sulla corsa delle primarie repubblicane iniziata dieci giorni fa e che impegnerà i cinquanta stati dell’unione per diversi mesi fino alla convention di Tampa (Florida) in cui a fine agosto verrà incoronato il vincitore. Battezzata come la campagna dei “sette nani” (già ridottisi a cinque) per via dello scarso spessore dei candidati del “Grand Old Party” che fu di Lincoln e di Reagan, essa partorirà un gigante, l’uomo che sfiderà Obama a novembre e forse il prossimo presidente degli Stati Uniti. Le possibilità sono le più varie in un sistema in cui i partiti sono dei veri mondi, grandi abbastanza da mettere assieme posizioni distanti anni luce senza mai risolverle nell’unità. Una ricchezza che è al contempo un elemento di forte confusione. E così, nel variegato panorama politico Usa, puoi trovare un esponente del Partito Democratico come il governatore George Wallace che negli anni ’60 cercò di impedire, mettendosi davanti alla porta, l’ingresso dei primi studenti neri nell’Università dell’Alabama e un senatore repubblicano dell’Oregon di nome Gordon Smith che per anni si è battuto al fianco del re dei progressisti Ted Kennedy per l’approvazione del Matthew Shepard Act, la legge che punisce i cosiddetti “crimini di odio” motivati dall’orientamento sessuale. Si capisce quindi come anche le elezioni primarie, disputate all’interno dei partiti, possano essere imprevedibili e determinanti quanto le presidenziali.
Quest’anno, con Obama unico candidato per i Democratici, la sfida è tutta interna al Partito Repubblicano. E già dopo le prime consultazioni, quelle dell’Iowa e del New Hampshire, sono emersi tre orientamenti principali, quelli fra i quali si giocherà la partita dei prossimi mesi: la compagine moderata, rappresentata dal miliardario mormone Mitt Romney, il superfavorito di queste elezioni e il più gradito all’establishment di Washington; il blocco conservatore della destra religiosa e del movimento anti-tasse dei Tea Party che dopo il ritiro della propria paladina Michele Bachmann si raduna intorno all’ultracattolico italoamericano Rick Santorum e all’ex speaker della Camera Newt Gingrich; il minoritario ma battagliero gruppo dei libertari, capeggiato dal settantaseienne ginecologo texano Ron Paul, il più anziano dei contendenti ma il più apprezzato dai giovani, anche quelli del movimento Occupy Wall Street, che vanno in visibilio per i suoi slogan contro lo stato e le banche. Restano fuori il preparato diplomatico Jon Huntsman, ex ambasciatore a Pechino, giunto ormai all’esaurimento dei fondi, e il governatore del Texas Rick Perry che, dopo una campagna elettorale fatta di gaffes e amnesie, avrebbe fatto bene a tirarsi indietro come la signora Bachmann ed Herman Cain, il “re della pizza” travolto da scandali sessuali e imbarazzanti ignoranze politiche prima ancora che la gara prendesse il via. Ora, considerato che Paul e Gingrich non hanno grandi possibilità di conquistare la nomination, ma proseguono la loro battaglia personale chi per dare visibilità alla propria corrente all’interno del partito e chi per menare colpi negli stinchi all’odiato mormone, la sfida si riduce a uno scontro a due: Mitt Romney contro Rick Santorum. Moderati contro conservatori. Lo si è visto già in Iowa, dove la competizione si è conclusa con un quasi pareggio. E, anche se la vittoria di Romney in New Hampshire è stata schiacciante, la corsa è ancora aperta, specie se si tiene conto che la prossima tappa è il South Carolina, stato tradizionalmente conservatore. Perché il sostegno della base conservatrice, quella dei fondamentalisti cristiani e dei fanatici delle armi, che si incarna nell’immagine de “La Bibbia e il fucile” a cui Joe Bageant ha dedicato un suo recente saggio, nel Partito Repubblicano conta parecchio. Lo dimostrò anche il moderato John McCain, sfidante di Obama nel 2008, scegliendo come sua running mate la governatrice dell’Alaska Sarah Palin, musa ispiratrice dei Tea Party e reginetta dei conservatori d’America. Alla pancia di questa porzione importante del suo partito dovrà parlare anche Romney se vuole arrivare alla resa dei conti di novembre. E sembra averlo capito, a giudicare dalla giravolta compiuta sul tema dell’aborto, cambiando posizione da favorevole a contrario. È la politica, bellezza. Oppure è il paradosso di un paese in cui le primarie le vinci se fai la voce grossa, se ti atteggi ad estremista, ma per diventare presidente devi essere moderato, come a sinistra ha insegnato la vittoria di Obama, frutto del suo appeal sugli elettori di centro. È il messaggio che emerge anche da un sottovalutato film del 1995, “Una cena quasi perfetta” (The last supper) di Stacy Title, che è qualcosa di più di una piacevole commedia nera e dice molto della società e del clima politico negli Usa. In una delle ultime scene, i cinque ragazzi della sinistra radicale che per tutto il film hanno ucciso, invitandoli a cena e avvelenandoli, svariati esponenti del grottesco mondo della destra – ex militari nazionalisti, preti omofobi, maschilisti irredimibili e alla fine anche una ragazzetta ignorante colpevole di non apprezzare “Il giovane Holden” – sono finalmente riusciti ad avere a tavola un locale astro nascente del partito repubblicano i cui strali razzisti in tv risultavano loro particolarmente indigesti. Proprio quando si accingono a compiere con lui lo stesso servizio, l’uomo riesce a sorprenderli con una inaspettata apologia della moderazione: “Più questi estremi diventano estremi e più la società diventa moderata, perché quando li si allontana fra di loro ci si ritrova con una società che è molto ben ancorata nel mezzo (…) una società dove tutti possano vivere, tutte le razze, tutte le religioni, tutte le opinioni forgiate insieme”. È il messaggio, niente affatto definitivo né privo di ambiguità, di un film che toglie ogni velo d’ipocrisia al volto della politica, smascherando la radice comune degli opposti estremismi, qui rappresentati dalla variegata fauna conservatrice e dai giovani “liberal” idealisti e assassini. Un auspicio che vale anche per queste primarie repubblicane e le presidenziali di novembre. Ma adesso, in queste “idi di gennaio”, per parafrasare Clooney, ancora poco si può prevedere.

 

Quarantaquattro settimane ci dividono dalle elezioni presidenziali USA (Novembre 2012). Quarantaquattro i presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca dal 1789 al 2012. Da domani, per ogni settimana, Terza Pagina proverà a raccontare i presidenti, descrivendo il contesto storico in cui hanno operato, ricordando aneddoti curiosi sul loro mandato e registrando gli eventi centrali che hanno sfidato. Perché la storia degli Stati Uniti è spesso sovrapposta alla Storia del mondo.