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L’Europa al tempo della crisi

di Attilio Greco

Pochi giorni dopo il vertice bilaterale tra Monti e la Merkel, puntuale è arrivata la risposta dei mercati e delle agenzie di rating: S&P ha infatti annunciato nei confronti di nove stati membri dell’area euro il tanto temuto downgrade, cioè il declassamento in termini di rating finanziario, del debito pubblico d’uno Stato sovrano. Ad essere maggiormente interessati dal giudizio in questione sono stati, oltre ai “soliti noti” Spagna e Italia, anche gli “insospettabili” Austria e Francia. Il giudizio emesso nei confronti di Italia e Spagna non ha costituito di per sé una novità. Entrambi i paesi, infatti, scontano ancora oggi un 2011 disastroso sia per quanto riguarda le misure economiche adottate, ritenute insufficienti e modeste, sia per l’incertezza politica dovuta, nel primo caso, alla caduta del governo Berlusconi ed alla costituzione d’un governo tecnico, mentre per la Spagna hanno pesato le elezioni che hanno visto salire al governo i popolari guidati da Rajoy, le cui strategie economiche, ancora sconosciute ai più, generano non poche perplessità nei mercati e negli altri leaders europei. Un discorso a parte merita invece la Francia, che ha visto per la prima volta i propri conti pubblici essere valutati con un voto inferiore alla tanto agognata tripla A, la quale certifica appunto la “massima affidabilità” del debito pubblico, e dunque delle finanze, d’uno Stato sovrano; in questo caso la causa è da ricercarsi soprattutto nelle debolezze del sistema bancario francese, fortemente esposto ai rischi di insolvenza dovuti all’acquisizione di titoli di Stato stranieri considerati poco affidabili.
L’annuncio del downgrade non fa altro che certificare una situazione già esistente, peraltro ampiamente percepita e prevista dai mercati. In questo senso deve essere valutata la relativa calma che s’è registrata venerdì scorso in borsa: anche se la notizia del declassamento è stata data quando le principali piazze d’affari erano oramai chiuse, già nel corso del pomeriggio s’erano susseguite una serie di voci che prevedevano un intervento negativo da parte delle agenzie di rating. Voci che, nonostante tutto, hanno fatto registrare ad esempio un aumento dello spread tra Bund tedeschi e Btp italiani di “soli” 8 punti, a conferma che quanto detto da S&P non costituisce una novità per gli investitori, i quali già da tempo hanno compreso quale sia situazione economica europea.
Nonostante la decisione adottata da S&P non abbia dato luogo, nell’immediato, ad una serie di reazioni negative negli operatori di mercato, ciò non vuol dire che a lungo termine non si verificheranno impatti sostanziali sull’economia e sulla finanza degli Stati coinvolti: secondo l’agenzia Bloomberg, ad esempio, il declassamento di un punto in termini di rating può dare luogo ad un aumento del costo del denaro, quantificabile in uno 0,42% in più. Con buona pace delle banche che vedono dunque svalutarsi il proprio patrimonio illiquido costituito, appunto, da titoli di Stato considerati “non del tutto affidabili”. Per questo motivo la decisione assunta da S&P – e non condivisa dall’altra grande agenzia di rating, Moody’s – non ha mancato di suscitare una raffica di reazioni da parte dei diretti interessati, a partire dal premier Mario Monti, il quale non ha esitato a parlare di “attacco all’euro e all’Europa”. Commento, questo, sostenuto oltre che dalla Francia e dalla Germania, anche dagli stessi organi di controllo europei e persino dalla Cina. In questo senso, infatti, ciò che molti obiettano è che un simile giudizio non tiene conto, da un lato, delle riforme già operate e dei sacrifici previsti, e dall’altro, dei progetti discussi nelle ultime settimane che vogliono gli Stati membri dell’UE, a cominciare dalla Germania, disposti a modificare il Patto di Stabilità ed a rafforzare così le regole di bilancio. Quanto accaduto venerdì non può non riportare alla memoria le parole del presidente del BaFin, l’agenzia federale tedesca per la supervisione finanziaria, che nel 2003, dinanzi al parlamento tedesco, definì le agenzie di rating “come uno dei più grandi poteri incontrollati dei sistemi finanziari internazionali e dunque, anche delle economie nazionali.” In effetti, ciò che molti hanno criticato sono stati proprio la tempistica e le motivazioni del giudizio di S&P, quasi si fosse trattato di una bocciatura non solo tecnico-economica, ma anche politica circa le misure predisposte dagli organi europei e nazionali per contrastare il problema del debito pubblico nazionale.

Gli eventi di venerdì non debbono dunque essere considerati solo ed esclusivamente come un ulteriore, difficile momento dal punto di vista finanziario ed economico. Dimostrano come invece la crisi in atto stia assumendo sempre più anche i caratteri d’una crisi politica, europea oltre che nazionale. A tal proposito sono eloquenti le parole del Presidente Napolitano, secondo cui gli eventi di questi ultimi tempi coinvolgono in primo luogo la stabilità e il futuro dell’Europa, intesa come organismo politico sovranazionale, ed è dunque necessario che vi sia una “più forte volontà comune nel procedere senza esitazioni sulla via dell’unità politica e dell’effettiva unione economica, dal momento che la crisi economica e finanziaria globale ha trovato le istituzioni europee ancora condizionate da limiti del passato”.
Il messaggio di Napolitano è in realtà ben più profondo di quanto possa apparire ad una prima lettura ed offre un’interessante chiave di interpretazione. In esso, infatti, è contenuto un chiaro appello affinché non sia interrotto quel percorso storico e politico, nato all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, che portò in un primo momento alla creazione della moneta unica europea a seguito degli accordi di Maastricht del 1993, e alla ratifica della Costituzione Europea di Lisbona nel decennio successivo. Un processo, quello d’integrazione europea, che non ancora può dirsi concluso e che indubbiamente rappresenta la sola ed unica soluzione per superare il difficile momento attuale. E’ indubbio che la presente crisi economica sia nata innanzitutto come una crisi finanziaria, frutto d’una distorta percezione dei meccanismi del mercato e delle regole del consumo, considerati fino ad oggi come inviolabili e perfetti. Ma è stata soprattutto l’assenza di una precisa volontà politica di ricondurre le leggi dell’economia entro precisi limiti imposti dalla legge, dunque dalla collettività, a permettere che la crisi degenerasse al punto tale da mettere in pericolo non solo la sopravvivenza di aziende e banche, ma anche degli stessi Stati nazionali. E’ errato quindi credere che i sacrifici cui i cittadini vengono sottoposti dai loro governi e che le difficili scelte in materia di welfare siano dovuti alla mera speculazione finanziaria, concertata da pochi ed agguerriti “squali della finanza” di Wall Street, così come dipinti nei film di Hollywood. La speculazione, quando e se esiste, non è mai la causa primaria d’una crisi economica, ma la conseguenza di mancati meccanismi di controllo a salvaguardia dell’economia e dell’integrità del patrimonio di soggetti pubblici e privati. Ragion per cui ben vengano interventi come quelli volti a potenziare il “fondo salva-stati”, al fine di supportare immediatamente, con pronte liquidità, le economie nazionali in difficoltà; oppure l’istituzione degli “eurobond”, titoli obbligazionari garantiti non dai singoli Stati membri, ma dall’intera Comunità; ed ancora il potenziamento delle funzioni della BCE, affinché la stessa possa davvero assumere un ruolo paragonabile a quello d’una qualunque banca centrale nazionale. Ma è possibile immaginare la creazione di simili strumenti economici e finanziari senza che venga realizzata “un’effettiva unità economica”, come auspicato da Napolitano, ed in assenza d’una reale unità politica? La risposta non può che essere negativa. Se solo si considera la formazione storica degli Stati nazionali europei, cioè di quegli stessi soggetti che poi daranno vita alla CEE nel 1957, ci si rende conto che un’effettiva integrazione economica, entro un determinato territorio, è impossibile quando non supportata da una precisa volontà politica e da una contemporanea unità giuridica e fiscale. Perché ciò avvenga anche a livello comunitario, è tuttavia necessario che siano vinte quelle resistenze nazionali che non hanno ancora permesso di concludere il già citato cammino verso un’Europa effettivamente unita. Il recente rifiuto dell’Inghilterra a dare vita ad un sistema fiscale europeo, finanziato soprattutto dalla Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, è un esempio lampante di quanto sia vivo ancora oggi il dibattito tra “europeisti e non”. Un dibattito che ha frenato il processo di unificazione europea e che non ha permesso alle istituzioni comunitarie di adeguarsi ai tempi e alle sfide del nuovo secolo. Ma il tempo dei dibattiti è purtroppo finito, ed una risposta ci viene chiesta proprio da quelle circostanze esterne che ci impediscono di ritardare il momento di scelte epocali e condivise. L’Europa è ancora padrona del proprio destino ed ha la possibilità di inseguire il “sogno europeo” tanto decantato da un economista americano come Rifkin, capace di affermare che l’Unione Europea costituisce il soggetto storico-politico più ambizioso del XXI secolo. In proposito, è fondamentale che i leaders europei vadano oltre le resistenze offerte dall’elettorato spaventato e disorientato, e che non diventino schiavi di meschini egoismi nazionali. Perché dunque si prosegua è necessario che si trovi il coraggio di non fermarsi qui e superare questa crisi che ormai, prima che economica, è politica.