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“Sognando s’impara” – Capitolo 1

di Brando Improta

“Andate fiduciosi nella direzione dei vostri sogni,
vivete la vita che avete sempre immaginato.”
Henry David Thoreau

Non appena mi ero accorto che la ragazza bionda era davvero stesa nel mio letto e che non era svanita insieme al sogno, lanciai un urlo.
Tra l’altr, perché urlavo? Non che avessi paura di lei, anzi. Mi faceva piacere avere la materia dei miei sogni stesa accanto a me; probabilmente la paura risiedeva nel fatto che non conoscevo il motivo scientifico per cui lei potesse essere uscita dalla mia fantasia e fattasi reale. Forse non c’era nessun motivo scientifico, forse avevo condotto una vita talmente mediocre e fintamente felice che avevo bisogno di una ventata d’aria buona, forse mi ero aggrappato talmente tanto a quella felicità allucinatoria che me l’ero trascinata via nel mondo concreto.
Mentre pensavo a queste cose, sentii bussare alla porta. A quell’ora del mattino poteva essere solo il postino, anzi: doveva essere il postino. Se fosse stato qualcuno che mi conosceva, mi sarebbe stato difficile spiegare la presenza della ragazza nel mio letto, nuda tra l’altro.
Ma come insegna il cinema, il postino suona sempre due volte, e quell’unica bussata, prolungata e autoritaria, apparteneva ad Arianna.
“Fabio! Ti ho portato a vedere le bomboniere, non starai ancora dormendo?” urlava lei dalle scale, e via con un’altra bussata che fece tremare i vetri delle finestre.
Dovevo assolutamente sbarazzarmi di quella ragazza, così cercai di svegliarla con la maggiore delicatezza possibile: “Signorina…signorina…Mi duole di svegliarla ma credo che si debba vestire a razzo e nascondersi nel bagno, per dieci minuti al massimo”; in tutta risposta la signorina alzò leggermente le palpebre, mi guardò, mi dette un bacio sulla punta del naso e si rimise a dormire.
Quel bacino mi intontì per qualche istante, rimasi fermo a guardarlo con un’espressione da allocco stampata sul viso mentre dalla porta arrivavano le bestemmie di Arianna che voleva entrare. Com’era bella: quei capelli biondi che terminavano in tanti ricciolini confusi, due occhi color del cielo, che mi hanno fatto capire in un istante perché il cielo è azzurro, non perché Dio tifa Napoli ma per fare in modo che chi l’avesse vista avrebbe colto subito un paragone così bello e nobile, e il caso ha voluto che quel paragone potessi farlo io in quel momento.
Ero assorto in queste divagazioni pseudo-filosofiche quando uno “…onzo”, di cui avevo perso le prime lettere ma avevo ben capito il senso, mi riporto alla realtà. Mi alzai, mi infilai una vestaglia, aprii l’armadio e buttai tutti i miei vestiti a casaccio sul letto, fino a coprire completamente lenzuolo, cuscini e ospite inattesa.
Feci un respiro profondo prima di far scattare la serratura della porta, ma ormai il gioco era iniziato e solo un po’ di fortuna poteva tirarmi fuori da quell’impiccio.
Arianna entrò nella stanza con la faccia di un cane da tartufi, chissà perché certe donne si accorgono subito che c’è qualcosa che non va. “Perché ci hai messo tutto questo tempo a farmi entrare?” fu la classica domanda indagatrice. “Mi stavo facendo il bidet”, fu la classica risposta goliardica. Arianna corse in camera da letto senza dire una parola, si guardò attorno e sentenziò: “Non sei mai stato così disordinato”, alzò un pantalone e spuntò un piede che strisciava fuori dal lenzuolo. “Toh, guarda che distratto! Ho lasciato i piedi in giro per casa ieri sera”, dissi cercando di rallegrare l’atmosfera con una battuta. Ovviamente non funzionò. Arianna si mise a scavare fra tutti gli indumenti fino a trovare il visino della mia concubina, che continuava a dormire beatamente.
“Chi è questa troia?” disse. E se la storia continuasse come ne abbiamo viste a centinaia sul grande schermo o in televisione, io mi sarei buttato in ginocchio a chiedere perdono. Ma non feci nulla di tutto questo, anzi fui colto da un sussulto di coraggio e le rigettai in faccia tutta la rabbia e il rancore che avevo accumulato nel tempo: “Proprio quello che hai detto, una troia! Ma non ti preoccupare, perché non arriva nemmeno lontanamente al tuo livello”.
“Come?”, fece lei gelida, “Vabbè guarda, se mi chiedi scusa adesso fai ancora in tempo a salvarti”.
“Chiedo scusa…” risposi io, “Ma a me stesso, per aver pensato di poterti sposare e passare tutta la vita con te: tieniti le bomboniere, la tua presunzione e quella schifezza di cravatta che m’hai regalato un anno fa che non ho mai messa e mai la metterò”.
Mi aspettavo una reazione incontrollata, una sfuriata che potesse darmi soddisfazione, e invece Arianna non me ne dette nemmeno un po’, nemmeno in questo: si limitò a digrignare fra i denti un “Benissimo” e a lasciare la mia casa per sempre. Io non ero disposto però a darle l’ultima parola, così mi affacciai sull’uscio e le urlai dietro: “Ah, e tutte le volte che ho dormito da te ho lavato il mio scroto nel lavandino: sai, il bidet era troppo basso!” e chiusi la porta sbattendola con vigore.
Tornai a passo felpato in camera, ero deciso a capire come era stato possibile che quella ragazza si trovasse nel mio letto, ma non volevo svegliarla bruscamente.
Per fortuna era già sveglia, si stava stiracchiando allungando le braccia sottili sopra la testa.
Volevo dire qualcosa di bello, qualcosa di romantico ma mi uscì soltanto un debolissimo “Ciao”. Lei, di rimando, mi sorrise e la sentii parlare per la prima volta: “Buongiorno”. Anche la sua voce era bellissima.
Mi misi a sedere sul letto, la guardai per un po’ e poi finalmente arrivai al nocciolo della questione: “Scusami sai, ma puoi ricordarmi come sei arrivata qui questa notte?”.
“Non ti ricordi?”, fece lei, “In effetti avevi bevuto un po’” e sorrise ancora. Poi mi riepilogò le straordinarie imprese della notte scorsa: “Ci siamo incontrati in un bar, io ero con un ragazzo che mi trattava malissimo e, quando mi ha dato uno schiaffo, tu sei intervenuto”.
“Io ?” chiesi abbastanza stupefatto “Ma quanto era alto questo?”
“Meno di te, ma sicuramente più atletico: sei stato molto coraggioso”. Si stropicciò gli occhi, poi riprese a raccontare: “Gli hai detto che non si trattava così una signorina bella come me, lui allora ti ha dato un calcio sul ginocchio: forse hai ancora il livido”. Spostai lievemente la vestaglia per controllare, avevo effettivamente un livido tendente al viola che faceva bella mostra di sé. “A quel punto non ci hai visto più e gli hai rotto in testa la bottiglia di birra che avevi in mano”, finì trionfante.
“E poi?” chiesi sempre più convinto che il mio era stato solo un sogno.
“Poi siamo andati in un altro bar, abbiamo bevuto molto e tu mi hai invitato a venire da te, e poi…”, la ragazza s’interruppe per un attimo, poi aggiunse “Insomma, non mi far scendere in particolari”. E sorrise, ma questa volta con una punta di vergogna che le fece arrossire le guance.
Possibile allora che era stato tutto reale e che la mia sbronza non mi facesse ricordare nulla? Sicuramente era più credibile questa teoria di quella di un sogno che si era improvvisamente materializzato dal nulla. Ero propenso a crederci e allora le dissi dolcemente: “Vado a prepararti la colazione, però devi ricordarmi il tuo nome”
“Mi chiamo Bianca”
“Molto bello, mi piace”, le feci io.
“Ti deve piacere per forza”, disse lei con ovvietà, “Lo hai scelto tu e il signore dei sogni ti ha accontentato, ma non credere che io sia una specie di lampada d’Aladino: ho un’anima anche io”.
Feci una risata fragorosa, poi mi sentii mancare, feci a tempo a domandarle: “Come dici scusa ?”. E svenni.

“PROLOGO”

“Capitolo 2”

“Capitolo 3”

“Capitolo 4”

“Capitolo 5”

“EPILOGO”