di Marco Chiappetta
TRAMA: Brandon Sullivan (Michael Fassbender), rampante e brillante giovanotto della upperclass newyorkese, impiegato in un grande ufficio e immerso in una sfavillante vita di benessere assoluto, è, nonostante l’apparenza, un uomo corrotto e pervertito, ossessionato dal sesso e dalle donne, pornofilo impenitente e smanettone a tempo pieno, puttaniere e edonista; un uomo impotente verso la vita, fragile e solo, incapace di avere rapporti umani e relazioni sentimentali, e persino di occuparsi della scapestrata sorella cantante Sissy (Carey Mulligan). Il suo è un itinerario infernale di solitudine e decadenza senza fine e con possibilità non sfruttate di redenzione.
GIUDIZIO: Opera seconda di Steve McQueen (“Hunger”, 2008), curioso omonimo del biondo divo d’altri tempi ma diversamente nuovo talento inglese (e nero), che a sua detta fa film in America ma non “Hollywood movies”, è nomen omen un film sulla vergogna: vergognoso, appunto, e disgustoso anche, nella sua cruda, esemplare, brutale, gratuita sagra dell’eccesso, ma senza grottesco. Un film eccessivo, e giustamente, perché se si vuol raccontare l’eccesso nell’uomo si ha bisogno di un’arte eccessiva. Ecco dunque un soft-porno di un’eleganza e di un’estetica plastica, virtuosa, arredato come un loft o ufficio o club newyorkese, popolato di sguardi intensi, silenzi, piano sequenza, amplessi muti, musiche di Bach e, soprattutto, dalla grandezza immensa di un attore vero, Michael Fassbender (già recentemente sesso-maniaco Jung nel cronenberghiano “A Dangerous Method”, e premiato a man bassa alla Mostra di Venezia), che coraggiosamente presta anima e soprattutto corpo in quest’orgia di dissoluzione e decadenza, discesa pura nell’abisso umano del bisogno e della degenerazione.
Tabù primario di sempre: il sesso. La sesso-dipendenza come rifugio e prigione, maschera e anima di una psicolabile normalità: come e meglio di “La pianista” di Michael Haneke, al maschile, racconta onestamente senza mai accusare e senza mai nascondere, la tragedia di una droga che è sempre stata squallore e vergogna, prima e dopo Freud. Nella sua aberrante considerazione di oggigiorno, dove la donna è capitale, la carne un’industria, il porno e la hot-chat come celle di una prigione dorata e l’eiaculatio una semplice tempesta di ego, il protagonista è un po’ Andrea Sperelli con la sua vita altolocata e edonista e in fin dei conti nulla, un po’ Zeno Cosini con la sua facile arrendevolezza al ritmo lento inesorabile del marchingegno sociale-familiare-borghese, e di vizi e vizietti impossibili da risolvere e da redimere. Un po’ tutti noi, insomma: come Dante, che secondo una teoria inglese, è Everyman in quanto il suo viaggio all’Inferno è il viaggio di noi tutti nella dannazione quotidiana.
U.S. (Ultima Sigaretta) era il drammatico ultimo monito per l’anti-eroe di Svevo per smettere col vizio e tornare sulla retta via: e poi no, non gliela faceva, il bisogno è più forte della ragione, la trasgressione serve per rimettere in regola, come il peccato ai fini della salvezza, e a una tentazione vi si può resistere solo cedendovi. Per questo l’Io (leggiamo il Noi) che domina il film, protagonista assoluto che è tutti noi, è forse l’ultimo porno, l’ultima bizzarria da kamasutra: e poi sarebbe il caso di essere davvero uomo, e occuparsi del lavoro senza infestare il computer di virus, e occuparsi della sorella matta che a momenti si ammazza. Ma uomo è anche, soprattutto, forse solamente, bestia animata da istinti e bisogni, troppo repressi, troppo vergognosi, ma anche troppo veri e necessari e inestinguibili: e non è fatto, come disse qualcuno, per la vita sociale.
La vita di Brandon sembra quella scandalosa e degenerata dei romanzi di Bret Easton Ellis: yuppies, clubs, disco, cocktails, puttane, coca, ossessioni sessuali e narcisiste, donne bellissime e facilissime, istinti violenti o gay, regole dell’attrazione, glamorama puro nella New York metropoli babilonia immensa e sconfinata, techno-chic, ultra-comfort, fighetta, edonista e concettuale, modernissima e senza tregua per rapporti umani che sono solo schiuma e vergogna. Il capo di Brandon tradisce la moglie con donne sempre diverse e fa la morale per la cronologia infetta del computer del suo inferiore: è un grande cerchio, una piramide senza piani, questa gerarchia di uomini tutti meschini e tutti penosi. La sorella di Brandon canta come un angelo, ma non ha casa e senno e punti di riferimenti e indipendenza, né amore per la vita. No amore, no amicizia, no felicità, no speranza: solo bisogno assoluto di piacere e eiaculatio sine qua non che porta il nostro eroe, puttaniere e donnaiolo per una sera senza la sua droga, persino a finire in un locale osé per soli gay ad assecondare il suo impellente needing. Senza trama e soluzione, è la storia fluida e disarticolata (con struttura narrativa qua e là alla rinfusa) di un uomo del nostro secolo, storia senza eventi e banale come la vita: segue, nella tradizione dei grandi romanzi novecenteschi, lo stream of consciousness, il flusso di coscienza del protagonista, un’anima come un romanzo, un flusso che è l’unico filo a cui si appiglia lo script: è quanto basta per raccontare.
Un film scandaloso dalla bellezza lirica e tragica, manifesto di un’epoca e di una recondita antropologia malata, un’esperienza pura disturbante ed eccitante al tempo stesso, che colpisce testa, stomaco e anche più in basso con la sua messa in scena stupefacente e limpida di corpi nudi e bellezze e piaceri che appartengono più alla sfera della libido pura che non a quella del cinema, che secondo un detto non dovrebbe mostrare i due eventi più spirituali dell’uomo: la preghiera e il sesso. In un tempo avvezzo alla censura, una dissolvenza, un taglio, avrebbero diminuito la trasbordante potenza e brillantezza di un film come “Shame”. Ma i tempi sono abbastanza maturi e anche abbastanza tristi perché questo spettacolo di malcostume, con questo grand’uomo che seduce e insegue donne in metro, e copula con escort davanti alla finestra di un grattacielo in bella mostra, e dice e fa cose zozze a donne altrui nei pub, e preferisce continuare a vedere il suo video lascivo piuttosto che rispondere al telefono alla sorella in crisi, insomma sia la prova che solo il cinema onesto e crudele può raccontare ormai, con la sua violenza e forza e verità, la nostra società e le anime che la popolano.
VOTO: 3,5/5