di Gianmarco Botti
“Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali,
che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili,
tra cui la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”.
Nessuna rivoluzione, per quanto sia sospinta dal vento delle vittorie militari e si costruisca sulla solida roccia delle relazioni diplomatiche, può mai vedere la luce senza il fuoco delle idee. Esso brucia nelle menti dei filosofi e nelle pagine dei loro scritti ed è il solo capace di infiammare gli animi e illuminare la via verso il cambiamento. Ecco perché, dopo il generale e il diplomatico, la terza persona della nostra “trinità risorgimentale” in versione USA non poteva che essere un filosofo: Thomas Jefferson è stato per l’indipendenza americana quel che Giuseppe Mazzini è stato per quella italiana. Ed in effetti sono parecchi gli elementi che legano questo ricco proprietario terriero della Virginia al fondatore della Giovine Italia: l’appartenenza alla massoneria, l’ideologia progressista, una forte tensione spirituale che se in Mazzini prendeva forme romantiche, in Jefferson era indubbiamente quella di un illuminista, discepolo entusiasta della Rivoluzione francese, alla cui lezione si era formato assimilandone i principi. Quegli stessi principi Jefferson volle che fossero posti a fondamento dell’identità della nuova repubblica nella Dichiarazione di Indipendenza di cui fu il redattore principale: la rielaborazione jeffersoniana dei diritti dell’uomo scoperti dalla rivoluzione francese, fra i quali egli inserì anche il diritto alla “ricerca della Felicità”, resta una delle più belle pagine della moderna filosofia del diritto. Solo un animo profondo, che si era formato nei più vari campi del sapere, poteva esserne l’autore: filosofo, naturalista, architetto, inventore e collezionista di quadri, pure fra i tanti incarichi politici seppe sempre trovare spazio per la cultura e negli ultimi anni fondò l’Università della Virginia di cui preparò anche il piano di studi. Vero gentleman farmer, univa l’interesse intellettuale ad un’estrema semplicità (da presidente abolì il protocollo per i pranzi ufficiali, evitava di girare in carrozza e si rendeva disponibile per parlare con chiunque lo richiedesse) che si esprimeva nell’amore per la campagna e la natura: l’America che immaginava era una nazione essenzialmente agricola, popolata da contadini liberi e uguali e votata all’espansione nello spirito dei pionieri. Fu questo il modello a cui Jefferson ispirò l’azione di governo dopo che “la rivoluzione del 1800”, come battezzò la sua elezione, fu compiuta. Contrario all’idea di un potere centrale troppo pesante, tagliò drasticamente le spese dello stato e ingaggiò una battaglia senza quartiere contro il debito nazionale che considerava un “cancro morale”. Sul piano della difesa, si rifiutò di costituire un esercito permanente nella convinzione che fosse una minaccia per la libertà e inutile per proteggere una nazione “separata dalla natura e da un vasto oceano dalla rovina sterminatrice” dell’Europa. Ma con l’altra sponda dell’oceano Jefferson si trovò ad avere a che fare quando, per ottenere la proprietà della Louisiana, dovette sfoderare tutto il suo carisma nei confronti dell’amata Francia e di Napoleone. Intanto nel 1803 la scoperta di nuovi territori inesplorati del continente americano era partita, con la celebre spedizione di Lewis e Clark che diede avvio alla colonizzazione del West e al conflitto con gli indiani. Rieletto per un secondo mandato, Jefferson terminò i suoi otto anni di presidenza godendo di grandissima popolarità. Gli Stati Uniti non lo dimenticheranno e ne scolpiranno l’effige, insieme a quella di Washington e di altri due presidenti, niente meno che sul Monte Rushmore. Resta tuttavia la sorpresa nell’apprendere che chi era stato capace di parole tanto sublimi sui diritti inalienabili e l’uguaglianza di tutti gli uomini, fu per tutta la vita proprietario di molti schiavi, tutti braccianti nelle sue piantagioni. Ma forse non c’è tanto da stupirsi: è il rischio, a cui non sfuggono i migliori idealisti, di cadere in contraddizione perdendo il contatto con la realtà e le menti più profonde talvolta possono volare così alto da dimenticare dove sono poggiati i piedi.