di Brando Improta
“I sogni sono illustrazioni dal libro
che la tua anima sta scrivendo su di te.”
Alan Drew
Ci sono alcune regole non scritte nella vita, di quelle piccoline, quasi inutili, ma che aiutano a trascorrere meglio il nostro soggiorno sulla terra. Ognuno se le scopre e, volendo, se le inventa da sé. Io ne ho cinque fondamentali: mai soffiarsi il naso con la carta igienica che irrita le narici; guardare dritto davanti a sé quando si è nel bagno degli uomini; camminare rasente al muro con mio cugino Gustavo, checca rinomata; mai dare il “pacchero” allo schiaffo del soldato, ché se ti scoprono devi andare sotto; e, ultima ma più importante, essere convinti che i sogni non si possano mai avverare, in modo da non rimanere mai troppo delusi.
Bianca, la ragazza che si era magicamente materializzata nel mio letto, mi stava parlando dell’esatto contrario. Mi raccontò dell’esistenza del “signore dei sogni”: una figura fantomatica, vestita di un grosso mantello blu scuro e col pizzetto alla Mefistofele. Questo misterioso individuo abitava in una specie di limbo, dove gli arrivavano in un computer (anche i personaggi onirici si sono evoluti) tutti i sogni effettuati durante la notte da tutte le persone del mondo: sia i sogni belli, sia quelli brutti.
Tutti i sogni venivano catalogati per nome ma, soprattutto, per ricorrenza e per bramosia di vederli realizzati. La bramosia veniva quindi calcolata con una macchina per il ghiaccio: più cubetti venivano prodotti da questo macchinario, più l’inconscio del soggetto sperava di vedere avverati i suoi desideri. Infine, a colui il quale fosse risultato davvero sicuro di desiderare l’attuarsi dei propri sogni, il grande signore regalava il dono di ottenere questo immenso privilegio.
Io, ovviamente, non credetti ad una sola parola di quello che Bianca mi disse e cercai di commentare il racconto scherzando: “Mi dispiace di averti fatto prendere tutto questo freddo, ti regalerò una sciarpa per Natale”. Bianca insisteva però sulla sua versione e, fattasi improvvisamente cupa, mi disse solennemente: “Se ora mi dici ‘sì’, sarà difficile e sofferto il tornare indietro, accetti di vedere realizzati tutti i tuoi sogni?”. Ci pensai un poco, ancora non credevo all’incredibile storia dei cubetti di ghiaccio, ma la gravità con cui aveva formulato la domanda mi portò a chiedere: “Se dico di no, cosa succede a te?”, “Torno da dove sono arrivata…” mi rispose abbassando lo sguardo, “E da dove vieni tu ?”, “Dal silenzio, c’è un posto dove nessuno di noi sente nulla, non sappiamo bene chi siamo; a volte ho come l’impressione di aver vissuto altre vite, forse una volta ero in un campo di concentramento, in una tasca di un prigioniero, mi sembra di essere stata morfina, perché aveva chiesto di non soffrire morendo; forse un’altra volta sono stata un venticello caldo per un uomo che moriva di stenti nelle fredde strade russe…Siamo sogni, ogni volta veniamo plasmati da chi ci invoca, ma insieme alla forma vengono plasmati anche dei sentimenti, che vivo e perdo ogni volta che torno nel silenzio”.
Era un po’ matta, ma mi piaceva e mi trasmetteva un’indescrivibile dolcezza. “Non voglio che te ne vai. Accetto. E poi…”, m’interruppi per un secondo e poi ripresi, “Chi non vorrebbe veder avverati tutti i propri sogni?”. “Sei sicuro?” mi chiese ancora una volta. Ci pensai più a lungo, forse un minuto, poi risposi sicuro: “Sicuro, resta con me”.
Nella settimana che seguì, ebbi modo di constatare che quello che aveva detto Bianca era effettivamente reale e non frutto di una psicopatologia.
Ogni notte sognavo e ogni sogno, puntualmente, si avverava. Iniziò con cose stupide dapprima: una foto con dedica che mi ritraeva al fianco di Indro Montanelli, un solido conto in banca che sembrava non avere fondo, la prima copia stampata del “Don Chisciotte della Mancia” di de Cervantes e ovviamente la mia Dulcinea sempre al mio fianco.
Bianca era infatti la cosa più bella che mi potesse capitare. Scoprì che aveva un carattere antitetico al mio ma ci accomunava la vitalità e la voglia di ridere, e per me le risate son sempre state le cose fondamentali della vita. E poi aveva un profumo eccezionale, che non saprei come descrivere, un profumo che ricordava tutto quello che più mi piaceva della vita: era sia il mio fiore preferito che l’aroma della crostata di mia nonna appena sfornata, il sapore che ha l’estate unito alle albe invernali che ti lasciano addosso quella fragranza che hanno solo i giorni ancora da vivere. Anche litigare con lei era bello, non riuscivo ad arrabbiarmi sul serio, perché ogni disputa si andava a scontrare con l’effetto che faceva il suo sorriso dentro di me. E non c’era nulla da fare: vinceva sempre il suo sorriso.
La soddisfazione più grande di tutte riguardava però il mio lavoro. Sognai addirittura di essere stato promosso direttore del giornale per cui lavoravo, in seguito ad uno scandalo sessuale che aveva fatto retrocedere il dottor Tamburella alla cronaca rosa. Quando mi svegliai, la voce del proprietario del giornale mi annunciò che il mio odiato principale era stato davvero retrocesso e io infilato al suo posto, per precisione e meriti vari.
Entrai in redazione con il petto gonfio di orgoglio, vidi l’ex direttore Tamburella già al lavoro su un articolo di gossip nel campo della televisione. Ora, io avevo già avuto la mia rivalsa verso quell’odioso omuncolo grassoccio, e bisognava essere stronzi per continuare a infierire ancora. Si dà il caso, che io lo sono. Mi avvicinai a lui e gli tuonai nelle orecchie: “Tamburella, cosa diamine stai facendo?”, “Il mio articolo, signor direttore” mi disse con un inedito tono servile, “Ma quale articolo e articolo! Per scrivere queste stronzate di gossip basta un’oretta, vammi a prendere un caffè: ma non al bar alla fine della strada, vai da Manfredi!” ribattei con autorità. “Ma signor direttore…”, bisbigliava Tamburella, “Manfredi è dall’altra parte della città”.
“Lo so! Ma è l’unico caffè che digerisco, e vacci a piedi che in auto si potrebbe versare…”, e aggiunsi “E fai anche presto. altrimenti si raffredda!”.
“Va bene, direttore” rispose lui rassegnato.
“Signor direttore!”, lo corressi prontamente io. Vedere Tamburella uscire dalla redazione con la coda fra le gambe, con un chiacchiericcio divertito dei nostri colleghi in sottofondo, non aveva prezzo.
Alla fine della prima settimana, di quella che chiamai “La mia simpatica nuova vita”, accadde però un fatto strano. Mi capitò di sognare un topo che entrava in casa e che mi avrebbe fatto dannare per essere acciuffato. Ebbene il mattino dopo, mentre Bianca stendeva i panni, un topo s’intrufolò furtivo in casa. Mi ci vollero tre giorni per riuscire a rispedirlo fuori: fu una vera e propria guerra personale, senza esclusione di colpi. Alla fine l’avevo vinta io, non senza perdite però. Contai fra le vittime, infatti, due fette di Emmenthal, tutta la mollica di una forma di pane e una ferita ad un ginocchio, che mi procurai sbattendo contro il tavolo, mentre lo rincorrevo con una scopa.
Una volta liberatomi del fastidioso ospite, chiesi a Bianca com’era stato possibile che anche il topo si fosse materializzato dai miei sogni. La sua risposta fu ovvia quanto amara: “Ti avevo detto che si sarebbero realizzati tutti i tuoi sogni”.
Fu allora che cominciai a chiedermi cosa sarebbe accaduto se avessi avuto un incubo.