di Brando Improta
“È quando ti svegli dall’incubo che arriva il peggio”
Dylan Dog
Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare, di un amico con cui condividere le cose incredibili che avevano caratterizzato il mio passato più prossimo.
Decisi di parlarne con Gianni: la nostra amicizia era di vecchia data, lo conoscevo dal liceo, il che significava almeno quindici anni. L’unica cosa che mi dava fastidio in lui era la sua improvvisa irreperibilità: nell’era della convergenza fra media e della comunicazione tecnologica ai massimi livelli, lui riusciva ancora a scomparire.
E questo accadeva sempre nei momenti in cui c’era maggiormente bisogno di lui. Così, una mattina presa di vacanza dal giornale (in qualità di direttore potevo fare questo ed altro), mi misi alla sua ricerca. Il cellulare era staccato e a casa non rispondeva nessuno. L’unica idea che mi venne per trovarlo fu di chiedere al suo portiere, un impiccione che, nell’era della convergenza fra media e della comunicazione tecnologica ai massimi livelli, rimaneva l’unica fonte sicura per sapere dove si trovava qualcuno del suo quartiere.
Anselmo, così si chiamava il portiere ficcanaso, mi disse che Gianni era andato a un funerale: era morto un suo cugino di secondo grado e, più per dovere che per altro, si era recato alla messa in onore dell’estinto. Seppe darmi perfino l’indirizzo, quel pettegolo.
Alle dieci in punto ero alla chiesa di Santa Maria della Consolazione. Entrai discretamente, ma dentro di me sentivo che dovevo sbrigarmi, avevo la sensazione che l’aiuto di qualcuno si stava per rendere sempre più indispensabile. Mi misi a sedere sull’ultima panca, nel posto più esterno sulla destra, feci un’espressione di circostanza e detti velocemente un’occhiata a chi mi stava accanto: Gianni non era seduto lì. Così, mentre si alzavano tutti su richiesta del parroco, ne approfittai per passare alla fila davanti. Qui c’era una signora che, ad occhio e croce, superava abbondantemente il centinaio di chili, e che piangeva come se volesse finire le lacrime in quel momento. Ogni tanto mi guardava ed io, per non deluderla, mi passavo le mani in faccia e poi le dirigevo verso il cielo con gesti enfatici e disperati. Nemmeno in questa fila c’era traccia del mio amico.
Mentre la grassona non guardava, cambiai ancora fila facendo qualche passo in avanti. Qui una donna anziana e ossuta iniziò a sputarmi in faccia mentre si chiedeva “Perché? Perché?”. Non le detti il tempo di farmi lo shampoo completo, che passai alla fila successiva, dove finalmente trovai Gianni.
“Fabio! Cosa ci fai qua?”, mi chiese con sorpresa. “Ti devo raccontare una cosa incredibile”, risposi io mentre mi asciugavo dalla saliva della vecchia. “Sì, ho saputo: hai lasciato Arianna per un’altra e sei diventato direttore del giornale, anzi ti dico che sono davvero dispiaciuto che tu non me l’abbia raccontato prima”, mi disse a metà fra il serio e il faceto, “No, no” dissi scuotendo la testa “Non è questo il punto, è da dove vengono tutte queste cose che devi sapere!”.
Fu così che raccontai a Gianni del signore dei sogni, di tutte le istruzioni e delucidazioni che mi aveva dato Bianca, dei sogni che si avveravano e del topo.
Alla fine del mio racconto, mi guardò come se avessi raccontato la barzelletta più divertente del mondo, provò a trattenersi per un po’ ma alla fine scoppiò a ridere coprendosi con una mano; tutta la chiesa si voltò verso di lui, io cercai di rimediare alla brutta figura cingendogli le spalle con un braccio ed esclamando: “Poverino, non ha retto al colpo!”.
Nonostante le mie assicurazioni che fosse tutto vero, Gianni non volle credermi, ma decidemmo di far finire la cerimonia per parlarne liberamente una volta fuori la chiesa. Mentre il rito funebre proseguiva, la stanchezza accumulata negli ultimi giorni si fece sentire, e mi appisolai sulla panca mentre il parroco stava iniziando la sua predica. Fu un sonnellino brevissimo, ma non immune da spiacevoli conseguenze: senza capirne il perché cominciai a visualizzare oniricamente un bar, lo stesso dove avevo incontrato Bianca svariati sogni addietro. Il bar era meno pieno dell’ultima volta in cui ci ero stato (ma potevo davvero dire di esserci mai stato?), e un uomo grande e grosso, con lunghi capelli neri e un volto spigoloso che mi era familiare, entrò per chiedere un’informazione al barista. Da dove mi trovavo (ma dove mi trovavo?) non potevo sentire quale fosse la sua domanda, ma vidi chiaramente il barista indicare verso di me. L’uomo si voltò e lo riconobbi: era l’energumeno al quale avevo sottratto Bianca. Mi si scagliò addosso urlando “Finalmente ti ho trovato!”. Mi dette un pugno fortissimo che mi svegliò e me lo ritrovai addosso che mi strattonava, mi aveva seguito fin dentro la chiesa.
La gente incominciò ad urlare, un po’ per la violenza della scena e un po’ per l’incredulità dell’apparizione improvvisa di quell’uomo; Gianni prese una sedia e la ruppe addosso a quella montagna di cattiveria, che per tutta risposta si girò e gli stampò tutte e cinque le dita sulla faccia, facendolo cadere rovinosamente.
L’intervento del mio amico mi dette l’opportunità di scappare e nascondermi dietro una colonna. Il capellone forzuto mise una mano nella tasca interna della sua giacca e ne estrasse una pistola, con la quale cominciò a sparare in aria come un matto. “Dove sei?”, urlava continuando a sparare, fino a che il caricatore non finì i proiettili ma lui continuava a premere il grilletto come se questo potesse farlo sfogare a sufficienza. Allora presi coraggio e corsi verso di lui, presi bene la mira, e gli tirai un calcio in mezzo alle gambe con tutta la forza che avevo. L’omone cadde in terra, lasciò andare la pistola e prese a massaggiarsi i testicoli. Ne approfittai per colpirlo altre due volte, questa volta al viso, usando entrambi i pugni, prima il destro, poi il sinistro.
Il gigante perse i sensi crollando disteso sul pavimento. Guardai verso Gianni, che si era nascosto dietro un confessionale, e gli gridai: “Ora mi credi?”. Mi fece cenno di sì con la testa, poi improvvisamente urlò “Attento!”.
Mi girai di scatto, il bestione era di nuovo in piedi e mi colpì prima allo stomaco e poi al viso.
Feci in tempo a notare che aveva messo un tirapugni e poi, permettetemi, “caddi come l’uom cui sonno piglia”.