di Gianmarco Botti
“L’America agli Americani!”
Gli otto anni di permanenza di James Monroe alla Casa Bianca furono battezzati dalla stampa del tempo come un’“era di concordia”. Il partito federalista era praticamente scomparso e i demo-repubblicani non si erano ancora scissi nelle due fazioni che daranno vita ai Whigs e ai Democratici. Non fu dunque difficile per Monroe, già ambasciatore di Jefferson in Francia, Spagna e Inghilterra e Segretario di Stato di Madison, essere eletto per due mandati consecutivi. E in un clima del genere, caratterizzato dall’assenza di una vera opposizione e di eventi rilevanti sul piano interno, la sua presidenza sarebbe finita certamente nel dimenticatoio della Storia se non fosse stato per quel celebre messaggio che lanciò davanti al Congresso il 2 dicembre 1823: “L’America agli Americani!” è molto più di uno slogan. È un manifesto politico, il principio fondamentale che ha ispirato le relazioni intrattenute dagli Stati Uniti con le altre nazioni dalla loro fondazione ai giorni nostri. Nella “Dottrina Monroe” è racchiusa l’essenza di un Paese e tutta la sua storia: una storia di libertà e indipendenza, di autonomia costantemente rivendicata e difesa contro ogni ingerenza che la minacciasse. Nel momento in cui furono pronunciate, quelle parole avevano un doppio significato: volevano esprimere il netto rifiuto di ogni ulteriore tentativo di colonizzazione del Nuovo Mondo da parte delle potenze europee, il cui intervento in terra americana sarebbe stato considerato sempre come un atto di inimicizia verso gli Stati Uniti (tra l’altro vale la pena di ricordare che Monroe è stato l’ultimo presidente ad aver esercitato un ruolo diretto nella Guerra di Indipendenza contro gli inglesi); in secondo luogo, “L’America agli Americani!” è l’efficace formula retorica con cui si volevano legittimare gli interessi USA in America Latina, l’affermazione del primato statunitense su tutto il continente.
Nella sostanza, se sul piano interno la Dottrina Monroe costituiva un baluardo contro le pretese delle potenze straniere, sul piano internazionale era la diretta espressione di quelle statunitensi, rivolte in particolare al Sud America.
Anche se l’Europa non diede grande peso alla dichiarazione, accantonandola come un semplice sfoggio di arroganza, essa diede il via ad una tradizione di nazionalismo e isolazionismo USA che fa sentire la sua eco ancora oggi. È qui che nasce la pratica unilateralista con cui gli Stati Uniti hanno condotto molte delle loro guerre e la legittimazione teorica del cosiddetto “stato di eccezione” che ne fa la nazione garante della democrazia mondiale, l’unica cui sia consentito detenere armi di distruzione di massa o dichiarare guerre preventive (Iraq docet): “l’America agli Americani”, e anche tutto il resto!
In questa dottrina trova inoltre la sua origine l’idea che l’intero continente americano costituisca una sfera d’influenza privilegiata per gli Stati Uniti, un’idea che diverrà realtà nella seconda metà del XX secolo, con il sostegno accordato da alcune amministrazioni USA ai colpi di Stato che in Sud America rovesceranno regimi a loro invisi (l’appoggio di Nixon all’ascesa del generale Pinochet in Cile è un caso paradigmatico). E quel senso di sospetto verso l’Europa, vista come realtà estranea e potenzialmente ostile all’America e ai suoi valori, arricchito di forti accenti nazionalistici e patriottici, trapela anche in questi giorni dai dibattiti che scandiscono le primarie repubblicane per le elezioni presidenziali di novembre. Sarebbe tuttavia eccessivo attribuire a Monroe la responsabilità di duecento anni di storia (ed errori) americana; meglio riconoscere nelle sue parole il riflesso di un’inclinazione di fondo presente da sempre nel Dna della nazione, quello “spirito americano” che si sarebbe poi dispiegato nei secoli dando vita ad un ciclo di potere fatto di vittorie e sconfitte. Diamo all’America quel che è dell’America e al Presidente quel che è del Presidente.