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“J. Edgar”: Eastwood prova a donare armonia ai misteri di Hoover, ma l’incompiutezza è nel personaggio

di Marco Chiappetta

TRAMA: Parziale biografia (1895-1972) di John Edgar Hoover (Leonardo Di Caprio), direttore rivoluzionario dell’FBI dal 1924 alla morte, passando per 8 presidenti e quasi un secolo di storia (non solo) americana: una vita con pochi affetti e votata solo al lavoro, la paranoia per la sicurezza del paese, il bigottismo, l’anticomunismo militante, le grandi indagini (Dillinger, il rapimento di Baby Lindbergh, Ku Klux Klan), i grandi misteri, la sudditanza alla madre oppressiva (Judi Dench), le frustrazioni sentimentali per la fedele segretaria Helen Gandy (Naomi Watts) e l’amicizia ambigua con il suo secondo Clyde Tolson (Armie Hammer), amato e corrisposto ma platonicamente e in gran segreto.
GIUDIZIO: Monumentale, duro e freddo come il marmo (o come il suo protagonista), è così il ritratto dell’uomo più potente d’America, crocevia e icona di un’epoca e di un’America diventate leggenda, secondo Eastwood: J. Edgar Hoover, grande inquisitore a ricerca di streghe, comunisti, piccoli peccatori, affetto da sindrome d’Atlante e Grande Fratello ante litteram, un po’ Edipo un po’ Re Lear, l’uomo che ha guidato di soppiatto e dalle retrovie la vita politica del paese per più di quarant’anni, coinvolgendo e abbattendo personaggi come il nemico pubblico numero uno John Dillinger e il “comunista” Charlie Chaplin, ignorando e disprezzando Martin Luther King e i fratelli Kennedy al punto di negligere sulle indagini delle loro truci morti, l’uomo che volle farsi più che re un supereroe, sopravvissuto a otto presidenti (da Coolidge a Nixon) e a una vita grama di solitudine e frustrazioni personali, è insomma qui dipinto, grazie alla mano poetizzante di Eastwood e alla grande prova di un masochistico e virtuoso Leonardo Di Caprio (anche trasformato dal trucco e a suo agio in un personaggio simile al suo Howard Hughes dello scorsesiano “The Aviator”), come contraddittoria nemesi tra gigante onnipotente superomistico e bambino inerme insicuro che piange: Davide e Golia a un tempo, dentro una psicologia controversa e spiazzata, tradotta in una parlantina veloce e tendente alla balbuzie, in una devozione assoluta al lavoro anche oltre la paranoia, alla sudditanza edipica alla madre matrona, alla resistenza timida verso quell’omosessualità che non ha mai saputo accettare o espletare se non, appunto, in una tenerezza fanciullesca. Eastwood e Di Caprio restituiscono, o meglio danno per la prima volta, umanità a un uomo in fin dei conti orribile, un mostro antipatico e tirannico, minato da traumi e fobie, e infine anche politico ingiusto, incoerente e fascista, benché figura chiave e spesso osannata della storia americana recente. Zone d’ombra comprese e momenti morti o verbosi, non c’è tuttavia luce né nel fine né nel mezzo; e l’incompiutezza di questo film è nel personaggio: alla fine rimasto a galla nella sua contraddizione che non è né carne né pesce, sembra – nonostante gli intenti mèlo del regista – un freddo protagonista di un freddo documentario che informa sì, ma non emoziona. Eccetto quando, con tenerezza e pudore, mostra l’amore inespresso, taciuto, vergognoso, dei due amici, che si picchiano, si accarezzano, pranzano assieme, fino alla commozione finale di un Tolson vecchio e mummificato (interpretato dallo straordinario Armie Hammer, già visto e apprezzato nel doppio ruolo dei gemelli Winklevoss in “The Social Network”) che del suo amato amico bacia, afflitto, la squallida carcassa nuda sul pavimento. O nella messinscena del rapporto edipico con la madre, quasi ai livelli di “Psyco”, con il nostro che rimasto orfano indossa il vestito della madre morta: vorrebbe essere lei, donna sì, ma anche personaggio con i cosiddetti attributi. Non riesce J. Edgar, nonostante il potere e il carisma, a ottenere felicità e amore; come questo film, che nonostante la classe, la recitazione e la ricostruzione d’epoca, è ben lungi dall’eccellenza alla quale il grande Eastwood ci ha abituati da circa otto film consecutivi a questa parte (escluso forse, ma forse, “Invictus”, e per il motivo contrario: troppa grazia e troppa emotività). L’ultima fatica di Clint, anche autore delle belle musiche al piano, è semplicemente discontinua, pur se fedele all’idea di cinema classico del più classico dei registi moderni. Che qui strizza l’occhio all’Orson Welles di “Quarto potere”: struttura narrativa sospesa tra passato e presente, un protagonista prima enfant prodige e poi gigante megalomane (persino il trucco ricorda quello del giovane Welles invecchiato), l’apologia triste sul potere e sull’assenza di amore, legato a un’infanzia solitaria e a una madre troppo amata. Infine, come per il cittadino Charles Foster Kane, magnate della stampa di cui nessuno sa davvero nulla e ognuno ha qualcosa da dire, non basta una parola (e nemmeno un film) per spiegare un uomo, né la sua vita. Tutte menzogne e meschinità e sotterfugi alla base del successo di J. Edgar: come per Kane, come per lo sceriffo James Stewart di “L’uomo che uccise Liberty Valance” diventato eroe per caso e per sbaglio, come i soldati americani raccontati da Eastwood in “Flags Of Our Fathers” che per quella famosa e faceta foto con la bandiera stelle e strisce sul colle giapponese sono diventati idoli e chissà perché. Come per l’America tutta. J. Edgar si millantò (super)eroe, pistolero, sceriffo: la verità è che i vari Dillinger, Karpis, Hauptmann (assassino del figlio di Lindbergh) sono stati braccati e eliminati dalla sua squadra, e mai da lui in persona, arrogante quanto basta per una scrivania, ma non abbastanza coraggioso e forte per fare una retata o premere il grilletto. Uomo di pensiero e non d’azione: amleticamente paralizzato, anzi, nell’azione, come nella vita. Ma la leggenda supera la verità, e la fama fu (ed è ancora) sua. E il cinema, si sa, trasforma la verità in leggenda e viceversa. Due ore di film non bastano a chiarire il mistero e la persona. Se per il buon nome di Hoover è lasciata ai posteri l’ardua sentenza, per il film, pur discreto, sappiamo già: non lascerà il segno.
VOTO: 3/5