di Roberto P. Ormanni
Fare musica ai giorni d’oggi è impresa ardua, soprattutto per un giovane, in piedi di fronte l’incertezza del proprio futuro.
Notti insonni ad osservare il soffitto, a sperimentare nuovi suoni e scrivere canzoni, a leggere un vecchio libro: “La coscienza di Zeno”. Ad ascoltare musica.
Recentemente ho acquistato un album, “Io sono Ulisse” di Brunella Selo, prodotto dalla Polosud Records di Ninni Pascale. Ho conosciuto per la prima volta questa straordinaria cantautrice dalla voce inconfondibile (chi non la ricorda insieme a Nino D’Angelo al Festival di Sanremo del 1999 con “Senza giacca e cravatta”) poco prima del mio “Street tour”, ricevendo l’invito alla presentazione dell’album sopracitato: invito che mi avrebbe fatto anticipare di qualche giorno la fine del mio avventuroso giro d’Italia.
In una notte insonne, con in testa mille dubbi sull’attuale situazione musicale, pensai: “Perché non fare due chiacchiere proprio con la Selo?“.
Le lascio un messaggio, le propongo l’appuntamento, dopo poche ore la maestra accetta.
Mi reco in via Zanfagna 7, alla scuola di “Musicisti associati”, affrontando gli innumerevoli tranelli che la Circumflegrea può regalare a un distratto essere umano come me.
Ho sempre pensato la Selo come una delle voci più belle del panorama musicale: la sua voce è “importante”, non solo potente e intonata ma caratteristica. Tali qualità sono attribuibili ad interpreti del calibro di Giulietta Sacco, Concetta Barra ma anche alle straniere Mercedes Sosa, Celia Cruz, Regina Spektor, Tracy Chapman.
Maestra, mi tolga una curiosità, perché le grandi case discografiche investono sulle solite voci, sostenute dai soliti arrangiamenti ,pronte a raccontare le stesse identiche cose?
(Sorride) Io credo che anche a grandi livelli ci sia molta incompetenza, il non osare è sinonimo di tutto ciò. Prima, ti parlo anche di vent’anni fa, le case discografiche investivano su personaggi sconosciuti, personaggi che potevano anche non piacere, si correva il rischio ma tutto era più bello, più puro. Si scopriva un talento, lo si faceva crescere, lo si aiutava a trovare un abito adatto per esprimere al meglio ciò che aveva da dire. Le attuali case discografiche, invece, sono più esperte di show business che di musica. S’investe su personaggi già conosciuti come quelli che sbocciano nelle fila da Talent e Reality, utili al guadagno delle major e che resteranno sulla cresta dell’onda per pochi anni.
Ma la colpa di tutto ciò a chi va data?
E’ difficile dare la colpa a una o più persone. Ahimè, è il sistema che è marcio. I grandi mass media hanno deciso in un bel momento di seguire tutti la stessa linea di pensiero. Radio e televisioni non fanno altro che trasmettere musica commerciale …
Ci sarà qualcuno che si salva in questo losco ambiente che è la discografia italiana…
Non voglio ammazzare i sogni: ci sono realtà che si salvano, ma vengono etichettate come case discografiche per la musica “di nicchia”, termine che io odio. La Felmai, la Polosud Records fra queste, purtroppo, però, devono soccombere alle leggi spietate del mercato. Ritornando al discorso di prima: il mercato forse è il nemico numero uno della buona musica, crea competizione e spesso le realtà indipendenti non riescono a sostenere gli enormi budget economici delle major.
Mi sono spesso interrogato sul ruolo dell’artista e su quello del cantautore. E’ giusto essere pagati per aver qualcosa da dire?
Pensa ai professori di filosofia o ai poeti, loro raccontano e meritano retribuzione il tutto, però, se c’è competenza, talento, creatività.
Ho consumato il suo album e fra i mille aggettivi che attribuirei ad esso, insieme a prezioso, infinitamente orecchiabile, aggiungerei anche “azzardato”. Dove si trova il coraggio di osare?
Bisogna sempre fare quello che senti, soprattutto se hai voglia di fare battaglia in questo paese, a Napoli in particolar modo. E’ una città difficile, molto cambiata da quella di quando io ero bambina ma confido in voi giovani.
Mi elencherebbe i tre momenti più importanti della sua carriera?
Te ne dirò quattro. La tournè di “ ‘900 napoletano”; l’incontro con il maestro De Simone, mito indiscusso della musica mondiale; il Festival di Sanremo con Nino D’Angelo e, al primo posto, la scoperta della musicoterapia grazie a Gianluigi De Franco (voce di “Kalimba De Luna” n.d.a.), che mi ha incoraggiato a intraprendere gli studi di tale disciplina. La musicoterapia ti porta avere la concezione della musica come processo di cura, la consiglio a tutti.
Vorrei porle un quesito che un amico mi ha posto in una passata intervista: quanto è importante essere apolidi, o meglio “napolidi”, in questo mestiere?
E’ molto importante. Vedi, io sono una che ha viaggiato tanto sia fisicamente che musicalmente. Ho visitato generi ed espressioni musicali differenti tra loro, mescolando il tutto, vuoi con il mio timbro, vuoi con le mie sonorità, a tutto ciò che facesse parte di Napoli e dintorni.