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La beffa della nuova commedia italiana: banalità mascherate da cambiamento

di Brando Improta

Il 2011 è stato un anno di svolta per il cinema italiano: parte del pubblico ha infatti gridato al cambiamento, alla fine di un certo tipo di commedie in favore di altre più moderne.
Lo scorso Natale appuntamenti tradizionali come il cinepanettone o il film di Pieraccioni hanno incassato molto, ma anche molto meno del solito: undici milioni e mezzo di euro per De Sica e company, contro i diciannove dell’anno precedente; dieci per Pieraccioni, vale a dire quattro milioni in meno rispetto ad “Io e Marilyn” del 2009.
Parte della critica e del pubblico italiano ha brindato dinanzi questa perdita di terreno: si è detto che è arrivato finalmente il momento di lasciare spazio a film dalla comicità più garbata e leggera, a battute meno trite e a situazioni più leggere e meno scontate.
Così il 2012 avrebbe dovuto rappresentare questa svolta e, in particolare, già tre film in questi due mesi hanno voluto portare freschezza: una freschezza in realtà già stantia, molto di più degli onesti prodotti natalizi.
Il primo è “Immaturi – Il viaggio”, sequel di un piccolo gioiello dell’anno scorso, diretto da Paolo Genovese. “Immaturi 2” è l’esempio di come non si dovrebbe mai fare un sequel, ovvero pensarci poco e farlo uscire in fretta nei cinema per sfruttare l’enorme successo del precedente. La trama è piena di banalità, di storielle inconcludenti che partono dal classico viaggio degli amici del liceo ora quarantenni; assistiamo così a tradimenti, sotterfugi, bugie ed equivoci, dovendoci sorbire anche un intermezzo pseudo-drammatico con la storia della ragazza afflitta da un tumore al seno. Il cast è sicuramente sconfinato: Luca & Paolo, Raoul Bova, Ricky Memphis, Ambra Angiolini e via cantando, ma l’unico davvero a suo agio (nonché l’unico a strappare qualche risata nei suoi sporadici interventi) è Maurizio Mattioli, dimostrazione di come la vecchia guarda sia ancora in netto vantaggio sulla nuova. Purtroppo, per la nostra decenza, il pubblico è accorso in massa: dodici milioni di euro d’incasso.
Passano due settimane ed esce “Benvenuti al Nord”, altro sequel di un film garbato e carino, diretto da Luca Miniero (che, non a caso, aveva collaborato con Genovese in passato varie volte). Così il ringiovanimento della nostra commedia è ancora una volta affidato a un secondo capitolo, ma nessuno sembra accorgersi della contraddizione insita in questo ragionamento.
“Benvenuti al Nord” ripropone la coppia Claudio Bisio-Alessandro Siani, con contorno di grandi caratteristi (Paolo Rossi, Nando Paone, Angela Finocchiaro e Giacomo Rizzo): durante la prima mezz’ora la storia è scorrevole e abbastanza divertente, il problema è che il film dura quasi due ore. Dopo un inizio piacevole, infatti, Miniero scade nelle macchiette proponendo una Finocchiaro in versione suocera, un mastino che parla attraverso baloon da fumetto, Bisio che si veste da giovane anni ottanta per ‘cuccare’ ragazze, Siani che si finge Bisio perché quest’ultimo è assente dal lavoro: in poche parole, una noia infinita. E seppure volessimo sorvolare su queste cose, non si può tacere a proposito di un lunghissimo finale melenso e preso di peso dal primo film, dove tutti diventano amici di tutti e dove tutti si amano e si vogliono bene. Ma nonostante tutte queste pecche, il pubblico ha gradito ancora: ventisei milioni di euro incassati.
Ma arriviamo ora al vero fiore all’occhiello della nuova commedia ‘sofisticata’ italiana, partorito da Fausto Brizzi, colui che aveva diretto con buona professionalità film come “Notte prima degli esami” ed “Ex” (e sceneggiato una decina di cinepanettoni): parliamo di “Com’è bello far l’amore”, uscito addirittura in 3D nemmeno un mese fa.
Sorvolando sulla scelta della terza dimensione, del tutto inutile per una commedia se non per far lievitare il prezzo del biglietto, si resta stupiti dall’infinita sequela di trivialità che questa pellicola propone. L’argomento portante della trama è il sesso: una coppia di coniugi (Fabio De Luigi & Claudia Gerini) non riesce più a fare l’amore con frequenza e, tantomeno, con fantasia. Si rivolge così a un pornodivo (Filippo Timi), amico di lei, per alcuni consigli. Brizzi evidentemente è convinto che per ridere del sesso bisogna essere volgari. Ma non solo. E’ convinto che le gag più sono abusate e più siano simpatiche, assistiamo così a: De Luigi che parla di proporzioni del pene cuocendo dei wurstel giganti; un’imbarazzante rapporto fra due ragazzini ‘trombamici’ che ai tempi d’oggi fa cool; sempre il povero Fabio colto in fragrante da un prete mentre tasta una bambola gonfiabile; la teoria secondo la quale i film d’autore al cinema servono alle coppie che vogliono pomiciare senza seguire una trama avvincente; la classica scena del filmato pornografico trasmesso per sbaglio a una conferenza di lavoro; il clichè dell’imbarazzo nel comprare articoli sessuali in farmacia (Woody Allen docet e Christmas in Love recurret).
Forse questo è il peggiore film del trio, tanto che vedendolo ci si chiede perché De Luigi si debba svilire facendo il cretino e cosa spinge un attore impegnato come Timi a sostenere il ruolo del pornodivo. I soldi sono probabilmente la risposta giusta. Ma se il problema fosse solo per la volgarità potrei tranquillamente dire che in un cinepanettone se ne sente e se ne vede di più. In realtà, la differenza fra i due prodotti sta nella consapevolezza degli autori dei film di Natale di girare film adatti ad un intrattenimento semplice, a confronto della presunzione di Brizzi (ma anche di Miniero e Genovese) che cerca sul finale di intenerire lo spettatore con un romanticismo forzato e davvero spicciolo. “Com’è bello far l’amore” è costato sei milioni di euro, e finora ne ha incassati due e mezzo: starà allo spettatore italiano decretare il successo o la perdita di questa pellicola.
La nuova lunghezza d’onda della commedia nazionale è davvero pessima: vorrebbe elevarsi senza elementi degni di farlo, spreca attori dal talento sicuramente alto, assembla sceneggiature prive d’un vero motivo d’essere se non il botteghino, è più volgare del cinema passato ma cerca di mascherarlo con una profusione di buoni sentimenti. E pensare che una volta registi come Steno o Corbucci riuscivano a valorizzare anche un canovaccio abusato con la loro vena artistica, senza contare maestri come Monicelli o Risi che facevano della sceneggiatura il primo punto di forza. Se questo deve essere il futuro della nostra comicità, forse non meritiamo i tanto denigrati cinepanettoni, né tantomento i film di Leonardo Pieraccioni, Giovanni Veronesi o Carlo Vanzina: prodotti onesti e sinceri, che mantengono la leggerezza che promettono. Gli italiani forse vogliono essere presi in giro con terze dimensioni piatte, storie presuntuose e attori che per amore del denaro diventano semplici macchiette. Del resto, se ci siamo fatti prendere in giro su piani ben più importanti come l’economia nazionale, perché non farlo anche con il cinema? Forse è vero: meglio “W la foca”, dove Bombolo almeno faceva ridere senza fronzoli e senza camuffare le parolacce con un ti voglio bene.