di Gianmarco Botti
“Finché il potere è amministrato per il bene del popolo
ed è regolato dalla sua volontà;
finché ci assicura i diritti della persona e della proprietà,
la libertà di coscienza e di stampa,
esso sarà degno di essere difeso”
Cinquant’anni dopo la guerra d’indipendenza in cui conquistarono la libertà, gli Stati Uniti furono attraversati da una nuova rivoluzione, dove la posta in gioco era non meno importante: la democrazia. Quella democrazia che molti nel Paese sentivano come non pienamente attuata, continuamente calpestata dall’élite “aristocratica” della Costa Orientale, che ad ogni elezione riusciva a fare prevalere un proprio rappresentante e che, nel 1824, aveva addirittura imposto John Quincy Adams in spregio del voto popolare. “Democratici” furono chiamati i sostenitori di Andrew Jackson, vero vincitore di quell’elezione, i quali, attraverso una grandiosa campagna di partecipazione come mai si era vista prima, riuscirono finalmente a portare il loro candidato alla Casa Bianca nel 1828. Grande fu l’entusiasmo per la vittoria dell’“uomo della strada”, un cittadino libero, avulso dai circoli politici ed intellettuali del New England (proveniva infatti dal giovane stato del Tennessee) e totalmente estraneo all’establishment di Washington. Un tale entusiasmo si riversò per le strade il giorno dell’insediamento: la Casa Bianca fu presa d’assalto da una folla oceanica di sostenitori che, azzuffandosi e gettando all’aria la mobilia, cercarono in tutti i modi di stringere la mano al nuovo presidente. “Sembrava il trionfo della plebaglia”, commentarono i conservatori. “Una grande giornata per il popolo: il generale Jackson è il suo presidente”, ribatterono i jacksoniani. Durante la campagna elettorale gli avversari avevano dipinto Jackson come un bandito di frontiera, un analfabeta, un tiranno militare. Le persone semplici vedevano in lui uno di loro, diverso com’era dai sei predecessori, tutti provenienti da famiglie benestanti e istruite dell’Est. Ma chi era veramente Andrew Jackson? Che presidente sarebbe stato? Nessuno poteva dirlo. Per tutta la campagna elettorale il candidato Jackson aveva evitato di pronunciarsi su qualsiasi argomento. Eppure nella mente di tutti erano scolpite le imprese da lui compiute come generale dell’esercito: militare di grande esperienza assurto al pantheon degli eroi nazionali, aveva vinto gli inglesi a New Orleans e decimato le tribù indiane a est del Mississipipi, aprendo la strada alla colonizzazione del West. Le battaglie sulla frontiera gli avevano meritato il soprannome di “Bloody”, “il sanguinario”. Una tempra da combattente, la sua, che impiegò anche nell’esperienza di governo. Profuse pari energie nel difendere i diritti dei singoli stati e nel respingere le tendenze disgregative che minacciavano l’Unione. Ingaggiò una vera e propria guerra contro la seconda Banca degli Stati Uniti, accusata di portare avanti manovre speculative e di tramare contro la sua presidenza. “La Banca cerca di eliminarmi”, confidò al vicepresidente Van Buren, “ma io la distruggerò!”. In linea con i suoi trascorsi militari, attuò una politica di allontanamento violento degli indiani dalle loro terre. Esercitò sempre un forte controllo sul Congresso, facendo largo uso del diritto di veto e anche dell’astuto espediente del “piccolo veto”, ovvero rifiutandosi di firmare progetti di legge presentati negli ultimi dieci giorni di una sessione parlamentare. Anche se Jackson sostenne sempre di agire in favore del popolo contro gli interessi di parte, molti videro nei suoi modi di fare poco “democratici” una minaccia alla Costituzione. Un giudice della Corte Suprema così espresse la sua preoccupazione: “Anche se in teoria viviamo in una repubblica, siamo in effetti sotto il governo assoluto di un solo uomo”. Più che una critica al sistema presidenziale americano, in queste parole, come negli otto anni dell’era Jackson, è da rintracciare un insegnamento importante che vale per ogni democrazia: non ogni regime che nominalmente si consideri “democratico” lo è necessariamente nei fatti, nello stesso sistema democratico sono insiti i rischi del suo rovesciamento e il confine fra democrazia e demagogia è sempre sottile. La demagogia poi, come si sa, è l’anticamera della tirannide.