di Marco Chiappetta
Ha vinto il cinema al cinema. L’avrebbe fatto comunque: la sfida tra i due contendenti maggiori all’Oscar, il sontuoso “Hugo Cabret” di Martin Scorsese (un americano a Parigi a scoprire gli inizi del cinema e Meliés) e il piccolo grande “The Artist” di Michel Hazanavicius (un francese a Hollywood a raccontare l’epoca del muto), l’ha vinta non tanto a sorpresa il secondo. In Francia lo davano per certo, l’America si è lasciata conquistare: ancora una volta un film sul mondo dello spettacolo fa centro (i casi sono tanti, da “Amadeus” a “Shakespeare In Love”), e l’Academy dimostra quella recente attitudine a premiare un cinema meno mainstream, più di nicchia (“The Millionaire”, “The Hurt Locker”, “Il discorso del re”), sempre all’insegna di ciò che può garbare al grande popolino. “The Artist” è però arte pura: “Terza Pagina” c’era all’anteprima internazionale al Rex di Parigi lo scorso settembre, in presenza del regista Hazanavicius (premiato), l’attore ormai divo Jean Dujardin (premiato agli Oscar come a Cannes) e la stupenda Berenice Bejo (solo nominata), e allora pochi sapevano, pochi speravano, si intuiva tuttavia che sarebbe diventato un cult. La semplicità della storia, mutuata in parte dai classici muti americani e dal leggendario “Cantando sotto la pioggia”, i temi sempre apprezzati del successo e dell’amore, il modo di rappresentare le contraddizioni della fama e di Hollywood, il manierismo di regia, musica, interpretazioni, tutto è da manuale. Alla faccia di chi dice, non certo chi vi sta scrivendo, che il cinema muto è noioso pesante e oramai nel 2000 insomma… Poesia in bianconero, muto e musicato splendidamente, è una scommessa vinta. A fronte di 10 nomination, per questo gioiellino ben 5 Oscar: regia, film, attore protagonista (Jean Dujardin), musica (Ludovic Bource: ascoltate su Youtube), costumi (Mark Bridges). Sbaraglia la concorrenza di un capolavoro forse non troppo chiacchierato come “Hugo Cabret” di Scorsese: ennesimo, si fa per dire, buco nell’acqua per un grande regista premiato solo una volta (a mo’ di scusa, forse, per “The Departed”) e spesso nominato a vuoto. Ma che grazia e che cuore il viaggio del piccolo Hugo nella Parigi anni ’30 alla ricerca di un segreto, una passione, forse un padre putativo: a 150 anni dalla nascita di Meliés, è il vero omaggio al cinema. Parabola al contrario: i corti parigini di Meliés se l’erano un po’ tutti scordati, il cinema americano degli albori no; un gigante americano parla del primo, un semisconosciuto francese del secondo, e Davide vs Golia docet, nulla è così imprevedibile. Una beffa, ma insomma “Hugo Cabret” agguanta comunque 5 Oscar “tecnici”: fotografia (del maestro Robert Richardson), scenografia (dei nostri ormai habituées Dante Ferretti e Francesca LoSchiavo), effetti speciali, montaggio sonoro, missaggio sonoro. Mani vuote, ma si sapeva, ed è meglio non battere questi sciocchi red carpet per Terrence Malick: il suo “The Tree Of Life”, rivoluzione cinematografica intimista e colossale a un tempo, sul mistero e la bellezza della vita, può sbancare Cannes ma non Hollywood. Già “La sottile linea rossa” a suo tempo fu una Caporetto: 3 misere nomination ora, film regia fotografia, suonano come un contentino. Poco male, rimarrà comunque. Come i dimenticati “Carnage”, perla troppo intelligente di Roman Polanski, e lo stra-cult “Drive”, tra i film più sorprendenti dell’anno, che meritavano qualcosina in più.
Capitolo attori: Dujardin sbaraglia Brad Pitt, George Clooney, Gary Oldman e il misconosciuto Démian Bichir; Meryl Streep, a ventinove anni dal suo ultimo Oscar e a fronte di 17 nomination, prende la statuetta per la sua Margaret Thatcher in “The Iron Lady”, battendo l’altra contendente Glenn Close, uomo in “Albert Nobbs”.
Christopher Plummer miglior attore non protagonista per “Beginners” suona come un risarcimento per la sua lunga e grande carriera; un’outsider, tra le donne, è Octavia Spencer per “The Help” (dramma sulle condizioni delle domestiche nere nell’America di 50 anni fa). Il miglior film straniero è l’iraniano “Una separazione”, il miglior film d’animazione “Rango” in un anno in cui la Disney ha dato poco. Altro: il miglior montaggio è quello di “Millennium” di David Fincher, e il trucco di “The Iron Lady” che è anche parte del successo della Streep.
Ora, come da copione, il trionfo apre le porte delle sale: un film deve essere bello se ne parlano tutti, se vince dei premi, è il fascino tutto americano del tappeto rosso. Poco male, quest’anno l’Academy è stata più o meno onesta.