di Giacomo Palombino
È strano come spesso riusciamo a sentirci parte di qualcosa che non abbiamo potuto vivere e vedere direttamente, eventi che comunque riescono a stuzzicare la memoria di tutti noi pur se appartengono a periodi anteriori alla nostra nascita. Forse questa è una delle cose più sensazionali della mente umana: riuscire a riprodurre ricordi anche in capo a chi quei ricordi non può averli. Per questo, ragionando per associazioni, quando si cita la città di Woodstock tutti vedono la stessa immagine: un’immensità di persone riunite per assistere ad uno degli eventi musicali più celebrati della storia del rock.
Jimi Hendrix, Santana, Joe Cocker, Janis Joplin, sono solo alcune delle celebri voci unite tutte da una stessa data, il 1969. Quell’anno, nello stato di New York, precisamente nella città di Bethel, Michael Lang, John P. Roberts, Joel Rosenman e Artie Kornfeld organizzarono l’evento considerato dai più come il simbolo della cultura hippy, momento di straordinaria valenza musicale che accolse alcuni dei musicisti più celebri del momento e vide un’affluenza di spettatori sensazionale, anche se i numeri precisi non sono mai stati accertati; basti solo pensare che molte delle principali strade dello stato americano rimasero bloccate a lungo durante quei giorni. Quello che sarebbe dovuto essere un festival di provincia, è divenuto un evento leggendario, non solo per quanto riguarda la musica, ma anche per la portata ideologica che lo ha caratterizzato.
Non voglio soffermarmi sul singolo episodio, ma riflettere sull’evoluzione che gli eventi musicali hanno vissuto negli ultimi anni: voglio ripercorrere le strade che in qualche modo hanno avuto un comune antenato in quel lontano 1969.
Vedendo i filmati di quel festival, a distanza di anni, ci si rende facilmente conto che il modo in cui la musica veniva vissuta e proposta al pubblico era totalmente diverso da quello attuale. Oggi tutto sembra diventato un grande show, un grande teatro o addirittura un magnifico film in 3D; i concerti moderni presentano delle vere e proprie scenografie, dove il palco diviene il vero protagonista. Effetti speciali, luci accecanti, cannoni che sparano, persino prototipi di armi, questo è tutto quello che possiamo vedere oggi assistendo ad alcuni degli appuntamenti musicali più significativi. Il quesito che voglio porre ai lettori è il seguente: tutto ciò è un normale fenomeno dettato dalle avanguardie tecnologiche o un modo per nascondere una minor capacità degli artisti nel gestire l’impatto dal vivo con gli spettatori?
L’impatto tecnologico è più che evidente, oserei dire inevitabile. Il tutto rende le quasi due ore di concerto sicuramente più piacevoli e suggestive, permettendo al pubblico di rimanere ancora più convinto ed entusiasta dell’organizzazione complessa ed articolata che sta dietro ad un evento simile: ricordo per esempio il “360° Tour” degli U2. Un palco sensazionale, uno dei più grandi mai utilizzati, caratterizzato da una pedana rotante e un altissimo spillone che sovrasta la scena; semplicemente sensazionale, un piacere per tutti quelli che hanno avuto modo di vederlo dal vivo. Ma di concerti che hanno proposto negli ultimi tempi cose simili se ne possono ricordare diversi, dai Muse ai Coldplay (rimanendo nell’area “pop”), agli Iron Maiden e i Ramstein (spostandosi verso suoni più duri).
Dall’altro lato deve essere segnalato però anche un minor impatto dei musicisti (nudi dell’effetto speciale) sul pubblico moderno, in parte a causa di quest’ultimo, abituato a tutte le novità sopra ricordate, in parte a causa degli stessi artisti. Se si guarda un vecchio live dei Clash, e si percepisce una stonatura di Joe Strummer, poco importa, perché l’impatto sul pubblico di quelle esibizioni era talmente forte da nascondere ogni sbavatura; lo stesso vale (rimanendo nell’area punk) per i Sex Pistols, dove si nota una quasi totale assenza di scenografia. Gli artisti moderni invece sono meno “cattivi”, meno capaci di conquistare il pubblico rinunciando al supporto tecnologico; non dico che sono scarse le loro capacità, ma minore è il coinvolgimento che riescono a suscitare nel pubblico con l’unico ausilio dei brani che suonano.
Il mio iniziale riferimento al festival di Woodstock vuole solo essere un significativo esempio per ricordare, fra tanti, uno dei diversi episodi che hanno segnato la storia di quegli anni: è stato vedendo il film di Michael Wadleigh, intitolato “Woodstock-Tre giorni di pace, amore e musica”, che ho pensato a questo mio articolo, riflettendo su come quegli artisti riuscissero a conquistare la gente con quel “poco” che noi oggi definiremmo semplicità.