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11. James Knox Polk, il cavallo selvaggio

James Knox Polk, democratico (presidente dal 1845 al 1849)

di Gianmarco Botti

“Il mondo non ha niente da temere
dalle ambizioni militari del nostro governo”

“Manifest destiny”, destino palese. Fu questa la parola d’ordine che animò le elezioni del 1844 e fornì ai partiti lo slogan propagandistico di maggiore effetto. In essa era racchiuso il nucleo di una filosofia che in quegli anni andava diffondendosi sempre più, scuotendo le passioni del popolo e galvanizzando l’opinione pubblica: l’idea che la Provvidenza avesse assegnato agli Stati Uniti il compito di estendere il loro dominio su tutto il continente offriva una formidabile giustificazione ideologica alle mire espansionistiche che gli USA perseguivano ormai da tempo. Dopo l’annessione dei vasti territori meridionali del Texas, la nuova “terra promessa” doveva essere cercata ad Ovest, lungo quel pericoloso ed esaltante percorso che i pionieri avevano chiamato la “pista dell’Oregon”. Fu così che il tema dell’espansionismo finì per dominare la campagna elettorale di entrambi i partiti, mentre le questioni interne rimasero in secondo piano. Alla fine la vittoria andò al democratico James Knox Polk, premiando un programma politico che aveva nella “conquista del West” il suo punto di forza. Anche se lo stretto margine di voti con cui si era aggiudicato l’elezione non garantiva a Polk l’ampia piattaforma di consensi che aveva auspicato, il presidente non vide alcuna ragione per ridimensionare il suo ambizioso piano espansionistico: la sua indole era quella di un “cavallo imprevedibile”, pronto a scalciare e compiere ogni sorta di bizzarria pur di proseguire il galoppo verso la meta che si era prefisso. Una simile determinazione la dimostrò a partire dal discorso inaugurale, quando sostenne che il diritto statunitense ai territori dell’Oregon era “chiaro e inequivocabile”. Dalle parole ai fatti il passo era breve. Riaprendo la vecchia contesa che intercorreva con il Messico, Polk ordinò alle truppe comandate dal generale Zachary Taylor di marciare fino al Rio Grande, nella speranza che ne scaturisse qualche incidente da utilizzare come casus belli per riprendere le ostilità. L’incidente ci fu e le truppe USA ebbero sedici vittime fra morti e feriti: il pretesto che il presidente cercava era finalmente arrivato. Distorcendo la verità e presentando la situazione in termini molto diversi da quelli reali, Polk accusò il nemico di aver “versato sangue americano sul suolo americano” e ottenne dal Congresso l’approvazione di una guerra che, secondo le sue parole, era già “in atto ad opera degli stessi messicani”. Contemporaneamente al conflitto militare fra Stati Uniti e Messico, uno scontro non meno duro ebbe luogo nell’opinione pubblica statunitense, fra gli stati più ardentemente espansionisti che stavano con Polk e quelli del Nordest che fin dall’inizio considerarono la guerra come un atto di aggressione americana. Fatto sta che la guerra messicana, di cui i posteri si sarebbero a lungo vergognati tanto per la meschinità delle manovre che l’avevano suscitata, quanto per la disparità delle forze in campo, fu unanimemente considerata “la guerra di Mister Polk”. Il presidente coordinò personalmente la strategia dell’esercito statunitense, comportandosi come un vero commander in chief poco incline ad ascoltare i pareri del suo gabinetto e persino quelli dei generali. Anzi, arrivò addirittura ad operare contro alcuni di essi, in particolare il generale Taylor, astro nascente dello schieramento Whig, affinché le vittorie militari non si traducessero in vantaggio politico per i suoi avversari. Ma, anche se la guerra si concluse con l’inevitabile disfatta messicana e con uno straordinario ampliamento del territorio USA, Polk non riuscì ad ottenere anche questa vittoria. Forse consapevole che la sua cavalcata era giunta al termine, evitò di ricandidarsi per un secondo mandato e nel 1848 gli americani elessero l’ennesimo generale, proprio quel Taylor che era stato artefice dei successi dell’amministrazione Polk in Messico, eppure acerrimo rivale politico del presidente. Una profezia dell’effetto tragico che la guerra contro il Messico avrebbe avuto nella storia degli Stati Uniti, in particolare gettando benzina sul fuoco dell’esplosiva questione dello schiavismo, è contenuta nelle parole del filosofo Ralph Waldo Emerson: “Gli Stati Uniti conquisteranno il Messico ma, come l’arsenico fra crollare l’uomo che lo inghiotte, così il Messico ci avvelenerà tutti”.