di Ilaria Giugni
TITOLO: POESIE DELL’AFRICA
AUTORE: SENGHOR
EDIZIONE: GIOVANE AFRICA EDIZIONI
“Come si fa a sradicare il disprezzo, soprattutto se è fondato su particolari insignificanti come il diverso modo di stare a tavola o una differenza nella forma della palpebra?” chiedeva J. M. Coetzee, uno dei maggiori autori sudafricani, nel suo “Aspettando i barbari”.
A questa domanda risponde Lèopold Sèdar Senghor, massimo poeta africano e primo presidente della Repubblica del Senegal, dopo la liberazione dal colonialismo francese. Giovane Africa Edizioni raccoglie parte dei suoi scritti in “Poesie dell’Africa”.
Il Senegal trova voce nel suo presidente, poeta appassionato e padre della negritudine.
I suoi lunghi versi suggeriscono “il profumo dei manghi che prende alla nuca” e la visione di donne meravigliose, “buia estasi del vino nero!. Esprimono un amore viscerale per il suo paese, da celebrare in ogni suo aspetto: dal colore scuro della terra alla natura rigogliosa e colorata di gelsomini e tamarindi.
Senghor è anche cantore della specificità culturale africana: spinge un popolo, troppo spesso vittima della sopraffazione culturale del bianco, a prendere coscienza di sé e ad affermarsi, senza sfiorare il limite della cieca esaltazione nazionalistica.
Negritudine è apprendere intuitivamente, fare arte nel senso vero e proprio del termine, ottenendo un prodotto utile, pronto ad essere ritrasformato all’occorrenza.
Se l’arte dell’uomo bianco è imitazione, descrizione della Natura, quella del negro risulta una suggestione nata da un incontro con l’altro, è il culmine di un dialogo uomo-materia. Tale dialogo si azzera nel caso del bianco, che tende a dominare la materia per realizzare l’arte per l’arte.
La ragione è bianca e l’emozione è negra, sostiene il padre della negritudine.
Può sembrare una dicotomia insuperabile, ma non è questa la soluzione cui Senghor sembra approdare: per dirlo con parole sue, “(…)la vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere…”.