di Attilio Greco
Da qualche tempo a questa parte, molti di noi sono chiamati a confrontarsi sempre più con temi legati all’economia e al mondo della finanza, facendo la conoscenza di una miriade di termini nuovi, prima sconosciuti ai più ed ora entrati di diritto nel nostro lessico quotidiano. Agli ormai stranoti spread, bund, btp, ecofin e tante altri, s’è aggiunta negli ultimi giorni anche la parola flexsecurity. Quest’ultima, a differenza del termine spread che può ben essere tradotto in italiano come differenziale, è difficilmente traducibile e non perché non esista un sostantivo adeguato, che infatti è appunto la traduzione “flessicurezza”. Il motivo per cui è difficile comprendere il concetto di flexsecurity, è che quest’ultimo sta ad individuare un tipo di esperienza sociale lontano anni luce dall’esperienza italiana. Flexsecurity sta proprio per sicurezza e flessibilità nel mondo del lavoro. Sembra strano, quasi offensivo per le nostre orecchie, sentir parlare di flessibilità e sicurezza che vanno a braccetto nel mondo del lavoro, soprattutto considerando i tempi attuali, le discussioni e le polemiche in atto, e la realtà italiana a proposito di lavoro flessibile. Il concetto di flexsecurity non nasce infatti in Italia bensì in Olanda, perfezionandosi successivamente in Danimarca, Svezia e negli altri paesi scandinavi. Si sviluppa dunque nell’ambito di un ambiente diverso, che presenta un particolare rapporto tra lo Stato e la società, al fine di modernizzare le relazioni tra lavoratori e imprenditori, incidendo dunque in modo significativo sul mondo del lavoro. Qui flessibilità, infatti, vuol dire deregolamentazione del mercato del lavoro e dunque maggiori spazi di manovra all’autonomia privata, al rapporto diretto tra datore di lavoro e lavoratore. Una flessibilità che sola, come avvenuto in Italia, di certo non migliora i rapporti di produzione, come invece si registrò in Danimarca e Olanda, e che anzi contribuisce piuttosto a privare i lavoratori di un bene per loro assolutamente prioritario: i diritti. Non a caso, infatti, dal lato delle parti sociali e delle organizzazioni sindacali tedesche, francesi e italiane, giunsero diverse critiche ad un siffatto modello di lavoro, quello cioè improntato sulla flessibilità, perché giudicato rischioso per i sindacati i quali, non più protetti nelle relazioni con le categorie di imprenditori, rischiavano dunque di perdere il loro potere contrattuale e non poter svolgere la loro missione: difendere il lavoratore ed i suoi diritti acquisiti dopo decenni di battaglie. Una preoccupazione fondata e giusta, laddove il sindacato svolge appieno il suo dovere, cioè quello di tutelare i lavoratori e al tempo stesso di collaborare con le istituzioni e le altre parti sociali. Ed allora accanto alla flessibilità, ecco aggiungersi la sicurezza. Quest’ultima, però, non dev’essere concepita come difesa del binomio lavoratore – posto di lavoro a tempo indeterminato, bensì come possibilità offerta al lavoratore di arricchire il proprio bagaglio professionale, in termini di esperienza, competenza e conoscenza. Perché si possano raggiungere simili obiettivi, concretamente attuabili come dimostra soprattutto l’esperienza danese, è necessario tuttavia adeguare interamente, da un lato, le leggi in materia di diritto del lavoro, approntando soprattutto misure a sostegno dell’occupazione e della sicurezza sociale, compresa la possibilità per il lavoratore di progredire professionalmente nell’arco di tutta la sua esperienza lavorativa per mezzo di strategie di riqualificazione; dall’altra parte, invece, è fondamentale rivedere il triplice rapporto tra imprenditori, lavoratori e sindacati al fine di instaurare un sistema di relazioni sociali adeguate alla normativa predisposta dallo Stato. Questo, in sintesi, è il risultato cui pervenne la Commissione Europea a seguito di uno studio sul modello della flexsecurity.
La domanda che sorge spontanea, allora, è questa: può tale modello essere esportato efficacemente in Italia, come sembrerebbe voler fare l’attuale governo Monti? La risposta è ovviamente sì, a patto però che venga rivisto completamente l’attuale mercato del lavoro in Italia, che a tutt’oggi si presenta come una mostruosa accozzaglia di normative differenti e in parte inconciliabili tra loro, generanti continue differenze a seconda della posizione del lavoratore. Il sistema di flexsecurity, peraltro, a differenza di quel che alcuni critici sostengono, non vuol dire pura e semplice deregolamentazione, ovverosia disimpegno dello Stato dall’intervenire a tutela del lavoratore. Significa semplicemente concentrare l’attenzione su problematiche differenti, dar vita a tutto un sistema di diritti nuovo, in questo caso la possibilità di prevedere una valida rete di ammortizzatori sociali. E’ quindi facile capire perché la flexsecurity abbia trovato terreno fertile in paesi come la Danimarca: è un sistema, questo, che necessita d’uno Stato a forte impronta sociale e dotato d’un welfare importante, capace di coprire le esigenze del singolo cittadino. Una fotografia che certamente non può essere applicata all’Italia, dove ancora esiste l’odiosa prassi delle assunzioni in bianco e la discriminazioni tra uomini e donne. Oltretutto preme sottolineare che flexsecurity non vuol dire neanche privare il lavoratore di quei diritti inscindibili legati alla persona, alla sua esistenza individuale e ampiamente tutelati dalla Costituzione. Nessun modello normativo in materia di lavoro può e deve permettersi di rinunciare a tutti quei diritti faticosamente ottenuti nel corso dei decenni, a cominciare dal diritto ad una retribuzione proporzionale e sufficiente, alla parità tra l’uomo e la donna, alla possibilità di realizzare esigenze personali come la formazione di una famiglia, anch’essa tutelata dalla Costituzione. Si può accettare dunque anche una riforma dell’art. 18 da parte del governo Monti, magari sul modello tedesco, ma non si deve dimenticare che in Germania vige un sistema completamente diverso di relazioni tra sindacati e imprenditori, con un livello retributivo assolutamente superiore a quello italiano. Se dunque non si deve dire no a priori a qualunque ipotesi di riforma, anche se può sembrare lontana dalla coscienza sociale attuale, d’altra parte non bisogna neanche snaturare il nostro patrimonio storico: a sentir parlare un capitano d’industria come Marchionne a proposito del fatto che i diritti non danno da mangiare, viene da piangere. Forse l’amministratore delegato della Fiat ha sbagliato nell’esprimersi, perché sarà la burocrazia tentacolare, la corruzione e l’elevata pressione fiscale a disincentivare gli investimenti in Italia e l’iniziativa imprenditoriale. Gli sperperi, dunque, e non i diritti, che magari non daranno da mangiare, è vero, ma contribuiscono a dare una dignità ed una ragione all’essenza del lavoro, intesa come attività esistenziale imprescindibile della persona in uno Stato che, all’inizio della sua Costituzione, afferma di fondare le sue radice proprio sul lavoro dei cittadini.