di Francesco Astarita
Per “fair trade”, letteralmente “commercio equo e solidale”, è intesa quella forma di attività commerciale, principalmente internazionale, tesa alla lotta allo sfruttamento del lavoro e alla povertà diffusa legate a cause economiche e socio-politiche.
Essa promuove lo sviluppo sostenibile, la crescita della consapevolezza dei consumatori, l’educazione, l’informazione e l’azione politica.
Da qui la netta distinzione rispetto alle tradizionali forme di scambio mondiali finora conosciute.
Si tenta, attraverso questo modello, di garantire ai produttori ed ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo un trattamento economico equo; sono quindi facilmente intuibili le differenze, etiche prima ancora che sociali, rispetto al modo di operare delle imprese multinazionali, vere e proprie predatrici del mercato, che agiscono esclusivamente in funzione della famosa “massimizzazione del profitto”.
In un mondo occidentale messo in ginocchio dalla crisi finanziaria, che tenta di riscoprire valori nel campo del lavoro finora messi da parte, spesso sacrificati in virtù di mera “profittabilità” e competizione, il tema inerente il commercio e&s può assumere risvolti estremamente interessanti, seppur apparentemente lontani.
Le motivazioni portanti di questo particolare modello socio-economico sono da rinvenire nella volontà di contrastare alcune pratiche dannose del commercio tradizionale:
1) La determinazione dei prezzi al consumatore, stabiliti da soggetti impermeabili alle forze sociali in essere, non tenendo conto della remunerazione base che dovrebbe, (il condizionale è ahimè d’obbligo) essere corrisposta ai soggetti deboli, contadini in primis. L’estrema lunghezza della filiera produttiva, che troppo spesso aliena i produttori rispetto al mercato che il frutto del loro lavoro andrà a servire.
2) Ritardi nei pagamenti agli stessi produttori, costretti all’indebitamento a tassi troppo esosi pur di continuare a fare il proprio lavoro.
Esistono poi delle organizzazioni che aderiscono al WFTO, il World Fair Trade Organization, la federazione mondiale del commercio equo e solidale, che sono coinvolte nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni, e in campagne dedite al cambiamento delle pratiche del commercio internazionale in genere.
Il WFTO stabilisce, inoltre, i criteri generali che gli operatori di mercato di commercio e&s accreditati sono vincolati a rispettare, ne cito qualche esempio:
Garantire ai piccoli produttori nel Sud del mondo un accesso diretto e sostenibile al mercato, al fine di favorire il passaggio dalla precarietà ad una situazione di autosufficienza economica e di rispetto dei diritti umani.
Agire ad ampio raggio, anche a livello politico e culturale, per raggiungere una maggiore equità nelle regole e nelle pratiche del commercio internazionale.
Pagamento di un giusto prezzo per la massimizzazione del benessere dei produttori e delle loro famiglie.
Protezione dei minori, il miglioramento alla situazione delle donne, la difesa ambientale.
Altre regole generali al modello sono le seguenti:
1) impiego di materie prime rinnovabili
2) creazione, laddove possibile, di un mercato interno dei beni prodotti
3) cooperazione tra produttori
Passiamo ora alla vasta gamma di prodotti che questo sistema economico è in grado, al momento, di offrire: si va dai prodotti puramente agricoli, quali il caffè, il thè, lo zucchero di canna, il cacao, la frutta secca, gli infusi in genere, ad articoli puramente artigianali.
Alcuni dati delle università Bicocca e Cattolica di Milano evidenziano come durante il 2005 nella sola Unione Europea il commercio equo e solidale abbia raggiunto un fatturato di 660 milioni di euro, due volte e mezzo maggiore rispetto allo stesso nel 2001. Sempre nell’UE, sono più di 79 000 i punti vendita che trattano merci solidali mentre sono circa 2800 le botteghe del mondo presso cui offrono il loro servizio circa 100 000 volontari.
Non mancano ovviamente le critiche al modello. Prime su tutte, le critiche sollevate dall’ Economist, il giornale neoliberista per eccellenza:
“Pare che l’aumento dei prezzi di beni comuni, ad esempio il caffè, ne incoraggia la coltivazione, contribuendo così ad abbassare ulteriormente i prezzi ma escludendo gli agricoltori che non producono equo solidale; inoltre, viene sottolineata l’esistenza di un prezzo minimo che bloccherebbe, di fatto, la competizione commerciale; infine l’agricoltura biologica (spesso solo spacciata per biologica), danneggerebbe l’ambiente: alla riduzione delle distanze corrisponderebbe infatti un aumento dei viaggi e di conseguenza delle emissioni“.
E’ indubbio che, come tutti i modelli, anche quello “e&s” presenti grossi limiti. E’ fuori discussione, allo stesso modo, che il mercato internazionale fondato sui principi classici sia altrettanto limitato in molte sue sfumature.
E’ possibile che, a causa delle difficoltà che alcune delle più importanti multinazionali di settore devono fronteggiare, il sistema del fair trade sia visto come un ingerente problema da debellare sul nascere, prima ancora che conosca il suo tanto atteso quanto sperato sviluppo.
In un mondo come il nostro, in cui la stragrande maggioranza dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, con sistemi democratici e sociali in via di formazione, sono costretti a prestare la propria forza lavoro in condizioni deprimenti, con orari in fabbrica massacranti, le condizioni lavorative misere, a fronte di stipendi irrisori (situazioni paragonabili alla prima rivoluzione industriale inglese del ‘700), tentare di dare una sterzata favorendo condizioni sociali “umane”, appunto sostenibili, retribuire in maniera conforme i lavoratori, è una delle condizioni essenziali per ripartire, magari consci non solo dell’ (in)utilità di alcuni prodotti, ma soprattutto dei processi alle spalle di ciò che ai più fortunati arriva impacchettato e pronto per essere usato.