di Attilio Greco
E’ di pochi giorni fa lo studio pubblicato dall’Istat relativamente ai dati sull’occupazione nel mese di febbraio. Al di là dei numeri ovviamente drammatici, che impongono non già una riflessione – manca il tempo per questo – bensì l’adozione di misure rapidi, efficaci e soprattutto incisive, è opportuno riflettere su alcune delle voci in particolare. La disoccupazione giovanile è circa tre punti in più rispetto ad un anno fa, quando si attestava invece al 29%. La disoccupazione generale, comprendente cioè le varie categorie di disoccupati, è pari al 9,3%. Dunque in pochi mesi abbiamo avuto migliaia di giovani in più senza lavoro, oltre ovviamente agli ormai tristemente noti “esodati”, cioè quei lavoratori allontanati dal proprio posto con la promessa di una pensione che non arriverà, a causa della recente riforma delle pensioni. Non è un caso allora se a destare maggiore scalpore tra tutte queste cifre, siano proprio i dati relativi ai lavoratori prossimi alla pensione o ai giovani che s’affacciano al mondo del lavoro. E’ di questo che si parla attualmente e di cui si discuterà certamente nei prossimi mesi. L’Istat non ci dice niente di nuovo, si limita solo a fotografare con i numeri una situazione che se non lascia presagire miglioramenti, figuriamoci ottimismo.
E’ inutile girarci intorno: è questo il problema maggiore al momento, il lavoro e la crescita. Del resto il governo Berlusconi è caduto proprio su questo a ben vedere, cioè sulla difficoltà di porre in essere azioni drastiche e decisive in materia di lavoro, pensioni ed investimenti a favore della ripresa. L’estate scorsa il governo Berlusconi s’accingeva a presentare l’ultima, formidabile mossa per dare quella “sferzata al cavallo dell’economia” tanto annunciata, decantata e lodata e tuttavia mai pervenuta. Mentre i mercati e le istituzioni europee e l’Italia tutta attendevano trepidanti i risultati degli sforzi congiunti di Pdl e Lega, chiamati a risollevare le sorti di un’economia nazionale fortemente compromessa dall’accentuarsi della crisi del debito pubblico, Berlusconi individuava nella riforma dell’art. 41 della Cost. e nell’aggiunta del principio di pareggio di bilancio in Costituzione, la panacea a tutti i mali dell’italica crisi. L’annuncio lasciò a bocca aperta l’opinione pubblica e gli esperti, anche se non in termini d’entusiasmo. In un momento drammatico, in cui si chiedeva alla maggioranza più ampia nella storia repubblicana di assumere un piglio decisionista, da autentico “governo del fare”, l’unica soluzione che venne concretamente proposta era riformare la Costituzione. Quanti si aspettavano “paccate di miliardi” a sostegno dell’occupazione e delle imprese, magari racimolate con l’abolizione delle Provincie e degli sperperi della burocrazia, rimasero un po’ delusi in effetti. Era chiaro come in quel momento fosse urgente adottare non palliativi come la solita mossa degli incentivi oppure il tanto caro condono, bensì riforme vere, capaci di modificare l’assetto amministrativo dello Stato e l’economia nazionale. Invece il governo Berlusconi si limitò a pronunciare solo lo slogan del pareggio di bilancio. Un principio, quest’ultimo, sacrosanto per certi versi ma assolutamente inutile in quel frangente. Innanzitutto perché una riforma costituzionale presuppone tempi di esecuzione biblici per i mercati, poi perché da che mondo e mondo se i diritti non danno da mangiare, come dice Marchionne, figuriamoci se i principi costituzionali valgono qualche punto di PIL. Di lì a poco, infatti, il governo Berlusconi sarebbe caduto. Fino ad ora l’esecutivo attuale e Monti hanno senza dubbio fatto più per l’economia e l’immagine del paese di quanto abbia mai fatto la maggioranza congiunta di Pdl e Lega, la più ampia nella storia repubblicana peraltro. Purtroppo se i mercati fino ad ora hanno promosso l’azione dei tecnici, lo stesso non si può dire degli italiani. E’ vero quel che dice Monti, e cioè che il governo gode d’una fiducia superiore rispetto ai partiti, ma i giorni della luna di miele sono finiti: in tre mesi e più sicuramente molto è stato fatto per acquietare i mercati e le loro richieste, ma ad oggi ancora non si sa come placare le sofferenze di quella economia reale che non trova sostegno neanche da parte della finanza. E se la Fornero dice che il governo dispone di soluzioni sennò nessuno sarebbe lì, allora non si sa come convincere gli altri della bontà dei progetti. Non a caso un altro dilemma è come costringere le banche a sostenere la sete di ripresa da parte delle imprese, perchè tutti sanno che la crescita, quella vera, viene da queste ultime non certo dai colossi finanziari. E se a ciò aggiungiamo che le prove attuali di “grosse koalition” tra Pd, UDC e Pdl non hanno minimamente attenutato le insanabili divergenze tra i vari schieramenti – vedi le polemiche sulle frequenze televisive, sulla giustizia e sulla RAI – si capisce allora come sia difficile per il governo operare. Questo perché nonostante Monti continui a dire che il Parlamento è sovrano, che il suo è un esecutivo tecnico e che dunque è chiamato, volente o nolente, a concertare ogni azione con i partiti, sono proprio questi ultimi che tacciono e che invece di mettere in campo proposte o di attuare sacrifici, si limitano a rivedere la legge elettorale. Un tema questo senza dubbio importante, ma che poco aiuta a sfamare il popolo e che invece fa molto per saziare l’ingordigia di potere dei grandi partiti, timorosi della giusta e dovuta batosta prevista per le elezioni dell’anno prossimo.
E’ davvero uno spettacolo squallido quello cui si assiste al momento, con protagonisti diversi per condizioni e interessi: un governo isolato e chiamato negli ultimi giorni a far da arbitro tra fazioni contrapposte, anziché da amministratore della cosa pubblica; un Parlamento che si limita solo a votare svogliatamente le proposte dell’esecutivo, anziché essere il centro delle iniziative, e desideroso piuttosto a fare i fatti suoi, questo sì magnificamente; un’Europa che ancora non si fida dell’Italia e che continua a chiedere sacrifici e riforme; un’economia non più in stagnazione, bensì in una fase di recessione totale. Nonostante quel che dicano i leader attuali, inoltre, non è che la fiducia nell’Italia è un attestato nei confronti delle italiche virtù, ma una necessità. Un conto è che falliscano Grecia e Portogallo, un altro è che invece a precipitare nell’abisso sia l’Italia. Purtroppo non siamo neanche più sovrani del nostro destino: è sempre di pochi giorni fa l’intesa trovata tra i vari Stati su come aumentare il cosidetto “fondo salva stati”, che ora ammonta a circa 900 miliardi di euro. Una cifra immensa, pari a quella che utilizzò Obama per salvare i colossi finanziari americani destinati al macello ad inzio crisi nel 2009, e che dovrebbe sostenere economicamente quegli Stati incapaci di far quadrare i conti pubblici in un momento di difficoltà. Un “tesorone”, questo, che è stato possibile costituire solo dopo molti rifiuti da parte della Germania, la quale certo scema non è, perché in cambio ha chiesto importanti e precise contropartite. In sostanza per accedere un domani al diritto di poter usufruire di quel capitale, abbiamo dovuto accettare importanti rinunce soprattutto in materia di politica economica e fiscale. Non monetaria, perché quella oramai è prerogativa della Banca centrale europea presieduta da Draghi.
E dunque a chiederci di resistere, di non arrenderci, di lottare contro ogni avversità non è solo la nostra dignità, o l’interesse futuro di noi stessi e dei nostri figli, ma anche gli interessi dei nostri partner europei. Insomma, si può ben dire che oramai in Europa vige il principio simul stabunt, simul cadent. Solo che in Italia alcuni questo ancora non riescono a capirlo fino in fondo. Forse perché per loro il principio dello stare e del cadere insieme non vale, essendo capaci di stare a galla molto meglio della gente comune. Giusto un filino magari, ma quel tanto che basta a far affossare noialtri. Peccato poi che a farlo siano proprio coloro i quali, in teoria, sarebbero chiamati a governare anche per noi. Come già detto, in Germania non sono scemi. Ma noi, invece, cosa siamo allora? Italiani direbbe qualcuno.