di Gianmarco Botti
“Dio sa che io detesto la schiavitù,
ma essa esiste ed è un male di cui non siamo responsabili
e che dobbiamo sopportare
finché non potremo liberarcene senza distruggere l’ultima speranza
di un governo libero nel mondo”
Per la seconda volta un presidente in carica passava a miglior vita, per la seconda volta un vicepresidente era chiamato a succedergli. Alla morte improvvisa di Taylor, toccò a Millard Fillmore sedere al posto di comando. I profili umani e politici dei due uomini non avrebbero potuto essere più diversi: di famiglia altolocata, Taylor aveva ricevuto una scarsa educazione e sviluppato nelle file dell’esercito quei modi rozzi e informali che non avrebbe mai abbandonato. Al contrario, Fillmore era di famiglia estremamente povera, nato in una capanna nel bel mezzo di una foresta nello stato di New York, ma si era fatto un’istruzione come autodidatta, fino ad intraprendere la carriera forense. Sul piano politico, tanto il vecchio generale si era dimostrato impulsivo e decisionista, quanto l’avvocato Fillmore aveva fama di persona moderata e riflessiva. Furono queste le doti che permisero al nuovo presidente di sbloccare la situazione di stallo venutasi a creare con l’acquisizione di nuovi territori, quali la California e il New Mexico, che dovevano scegliere da che parte stare nell’annosa diatriba fra stati schiavisti e stati “liberi”. Il compromesso che Taylor, nella sua ostinata coerenza, si era rifiutato di avallare fu raggiunto nel settembre 1850 grazie all’opera di mediazione portata avanti dall’amministrazione Fillmore in accordo con un’ampia corrente del Partito Democratico capeggiata dal senatore Stephen A. Douglas. Esso prevedeva che soltanto la California fosse subito ammessa nell’Unione in qualità di stato, mentre il resto delle acquisizioni messicane sarebbe stato diviso in due territori, New Mexico e Utah, da ammettere successivamente come stati “con o senza schiavitù”, secondo quanto stabilito dalle loro costituzioni libere ed autonome. Intanto, il vecchio “Fugitive Slave Act” del 1793 veniva reso più rigido da una serie di provvedimenti che permettevano ai proprietari di schiavi di arrestare gli evasi senza mandato, negavano a questi ultimi un regolare processo dinanzi ad una giuria e infliggevano pene pesanti a chi avesse aiutato la loro fuga. Accolto con grande acclamazione in tutto il Paese, il Compromesso del 1850 suscitò in realtà parecchi malumori: il Nord ebbe una certa difficoltà ad accettare le nuove leggi sugli schiavi fuggitivi, arrivando a minacciare, per bocca di alcuni suoi autorevoli esponenti come il filosofo Emerson, di non rispettarle affatto. Il Sud, da parte sua, continuò ad agitare lo spauracchio della secessione e avanzò una serie di riserve, sintetizzate nella risoluzione approvata alla convenzione della Georgia: essa accettava il Compromesso solo in parte e si dichiarava pronta a respingere qualsiasi tentativo di modificare il “Fugitive Slave Act”, di abolire la schiavitù nel District of Columbia o di rifiutare l’ammissione di uno stato schiavista all’interno dell’Unione. In sostanza si può dire che il Compromesso, la cui finalità doveva essere quella di accontentare tutti e placare le tensioni che attraversavano la nazione, lasciò tutti scontenti e contribuì non poco ad esacerbare gli animi sudisti, quelli che di lì a poco sarebbero esplosi col tuonare dei cannoni di guerra. Ormai era chiaro che il problema della schiavitù non poteva più essere relegato tra le questioni regionali, ma aveva acquistato una rilevanza nazionale. E il partito dei whigs, che in merito non aveva mai assunto una posizione netta e che ormai aveva perso ogni contatto con le esigenze del tempo, non era certo in grado di affrontarlo. Un chiaro segnale in questo senso lo diedero le successive tornate elettorali degli anni ’50, tutte caratterizzate dalla vittoria dei democratici. Preferendo a Fillmore, nelle elezioni del 1852, il generale Winfield Scott, che aveva collaborato alle gesta messicane di Taylor, il partito sembrò ripiegare verso il passato, invece che intraprendere la via di un vero rinnovamento.
C’era bisogno di un soggetto politico davvero nuovo, che assumesse con convinzione la causa dell’abolizione della schiavitù, difendendola non solo con argomenti morali ma anche economici e si facesse portabandiera di un capitalismo dinamico e democratico fondato sulla “libertà del lavoro”: fu così che nacque il Partito Repubblicano.