di Attilio Greco
Il governo Monti è il sessantunesimo governo della Repubblica italiana e il secondo della XVI legislatura. Nominato il 16 novembre 2011 dal Presidente Napolitano, viene definito dai più un governo tecnico che dovrebbe condurre l’Italia fuori dal pantano della crisi economica – e da quella politica dei partiti – per poi permettere, alle elezioni legislative del 2013, di restituire il primato dell’amministrazione pubblica alla politica. Tuttavia, visti i recenti sviluppi giudiziari che investono come una tempesta proprio i maggiori partiti italiani, viene da chiedersi quali prospettive sembrano esserci per l’anno successivo. Perché le attuali inchieste e gli ultimissimi scandali non sono altro che la ciliegina su una torta di rassegnazione e sconforto totale. Non sarà certo qualche indagato in più ad allontanare dagli italiani la tentazione di recarsi alle urne o esprimere in altro modo la loro partecipazione alla vita pubblica. Il problema non è, in verità, il fatto che possano esserci indagini a carico del sistema politico. In ogni famiglia buona c’è sempre la pecora nera, in ogni raccolto una mela marcia. Il problema vero è quando il marcio è endemico, quando non lo si vuole sotterrare ma occultare affinchè prosperi. Del resto, in questi ultimi vent’anni, quante formazioni politiche, quanti personaggi hanno annunciato ai quattro venti l’intenzione di scendere in campo, presentandosi come il “nuovo che avanza”? Quanti uomini hanno tentato di indossare la veste della dignità pubblica al fine di candidarsi, con l’obbiettivo di tutelare lo Stato e i suoi cittadini? Addirittura, tra le fila dei militanti del PD, si utilizzava il nome in codice “Papa straniero” per indicare una persona della società civile, estraneo dunque ai circuiti maggiori della politica e dotato di sufficiente autorevolezza e indipendenza, che potesse quindi guidare il partito verso la vittoria alle elezioni legislative. Ci manca solo che ora dalla Lega, esposta negli ultimi giorni al pubblico ludibrio a causa di presunti illeciti penali, venga chiamato a viva voce un “podestà straniero”, di quelli che una volta si vedevano nei comuni italiani del 1300 quali garanti di assoluta onestà e imparzialità. Si sono visti tanti imbonitori, imbroglioni e figli di Cagliostro negli ultimi vent’anni. Nessun papa o podestà stranieri, figuriamoci nostrani.
Lo scandalo che nelle ultime ore sta investendo la Lega è solo parte d’una tempesta più grande che sta già abbattendosi sui partiti. E’ la misera punta di un iceberg titanico, che i cittadini credevano aver sciolto con il referendum abrogativo del 1993, avente ad oggetto il finanziamento pubblico in favore dei partiti. L’inchiesta di Mani Pulite viveva in quell’anno la sua stagione più calda e non sembrava ancora possibile vederne la fine. Tangentopoli non arrivò a dimostrare niente che nessuno sapesse già, semplicemente smascherò e dimostrò come tecnicamente si strutturava la grande ruberia da parte della politica: da un lato un sistema di corruzione a più livelli che riguardava i rapporti tra imprese private e settori della pubblica amministrazione, occupati e dunque controllati dai partiti; dall’altro, peggio ancora, un vero e proprio finanziamento lecito dei partiti, perché previsto da una legge di Stato ma che in realtà altro non era che un mezzo per favorire attività illecite, cioè l’arricchimento personale dei potenti di turno. A questi due metodi, ampiamente documentati, provati e condannati, se ne dovrebbe aggiungere un terzo: quello riguardante i rapporti “istituzionali” tra mafia e politica. Ma se è compito della magistratura smascherare gli illeciti penali, almeno i cittadini possono intervenire affinchè non esistano leggi di Stato che contribuiscano a rendere vivo un tale sistema di malaffare. Per questo motivo nel 1993 venne indetto un referendum abrogativo, avente ad oggetto l’abrogazione, in ogni sua parte, del finanziamento pubblico ai partiti. Inutile dire che gli italiani diedero letteralmente assalto alle urne, garantendo una schiacciante maggioranza a favore dell’abrogazione. Il finanziamento pubblico ai partiti non esisteva più, salvo la legge che garantiva il rimborso elettorale da parte dello Stato, previsto da altra legge. Tuttavia ci si dimenticò di dover fare i conti con l’oste che, in questo caso essendo i partiti, si rivelò furbo e in grado di fare bene i suoi conti. Immediatamente dopo il referendum, infatti, il Parlamento approvò una modifica alla già esistente legge sui rimborsi elettorali, scampata alla mannaia giustizialista del referendum, prevedendo che nella stessa si contemplassero anche i tanto famigerati “contributi per le spese elettorali”. Lo Stato dunque non si limitava più a rifondere i partiti delle spese sostenute per le varie campagne elettorali, si preoccupava anche di contribuire alla loro organizzazione con un “modesto obolo”. Che poi i partiti usassero quei soldi per finanziare effettivamente la propaganda elettorale non ci è dato saperlo, solo sperarlo. L’ “aggiustatina” del 1993 fu comunque solo l’inizio. Nel 1997, quando oramai Mani Pulite poteva dirsi in parte conclusa e sembrava avviato il ritorno alla normalità, con la legge 2/1997 venne reintrodotta la possibilità del finanziamento pubblico ai partiti, dando la possibilità al contribuente, al momento di effettuare la dichiarazione dei redditi, di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento di partiti e movimenti politici. Il controllo dei bilanci e dei rendiconti dei partiti venne inoltre affidato dalla stessa legge alla Presidenza della Camera, non dunque ad un organo estraneo al potere partitico, dal momento che la sola verifica del rendiconto delle spese elettorali è competenza della Corte dei Conti, organo costituzionale i cui compiti sono proprio quelli di dover vigilare sulla gestione ed erogazione di denaro pubblico. La Corte Costituzionale bloccò poi la possibilità al comitato promotore del referendum del 1993 di inoltrare ricorso contro la suddetta legge 2/1997. Tuttavia il gettito garantito dal 4 per mille risultò esiguo rispetto alle pretese economiche dei partiti, dunque si avviò quello che sarà poi l’inizio di un vero e proprio ritorno al passato. Nel 1999 venne infatti reintrodotto il finanziamento pubblico vero e proprio: la legge 157 di quell’anno avrebbe dovuto coprire quelle spese elettorali che il solo “rimborso elettorale” non garantiva, istituendo cinque fondi destinati a supportare ogni eventuale voce di spesa per i referendum e le varie elezioni, dal Parlamento europeo alle Regionali, dalla Camera al Senato. Tali fondi ammontavano a circa 200 milioni di euro e venivano erogati in rate annuali ma solo in caso di legislatura completa. Non bastò ancora evidentemente. Un’ulteriore modifica, apportata nel 2002, prevede infine che possano accedere a tali fondi tutti i partiti politici che abbiano ottenuto un quorum elettorale risibile, pari all’1% e dunque inferiore rispetto al 4% originariamente previsto. Come dire che c’è abbastanza torta per tutti, anche per il partitino qualunque. D’altra parte il fondo previsto, cioè quello originario da quasi 200 milioni, viene ora erogato annualmente dovendo coprire, quindi, non già l’intera legislatura bensì ogni singolo anno della stessa. Di conseguenza il totale dei soldi pubblici versati dallo Stato ai partiti per una legislatura completa, ammonta ora a più del doppio rispetto a prima, cioè a quasi 470 milioni di euro. La botta finale, quella che non si scorda mai invece, è del 2006: in questo caso è statuito che l’erogazione dev’essere prevista per tutti e cinque gli anni della legislatura, anche se questa ha una durata effettiva minore. Ciò vuol dire che ora i partiti godono non solo dei finanziamenti previsti per l’attuale legislatura ma pure per quelli della precedente, conclusasi prima del previsto, come tutti sanno. Di conseguenza ora lo Stato non deve più coprire solo le eventuali spese future che i partiti potrebbero sostenere per una singola legislatura ma anche quelle che non avranno mai luogo. Ce ne vuole di fantasia per costruire simili sistemi di arricchimento. Neanche Tolkien avrebbe mai potuto fantasticare per le sue opere.
L’attuale scandalo della Lega è, del resto, l’esempio per antonomasia di come proprio l’attuale normativa sul finanziamento ai partiti crei, per lo più, solo una rete di corruzione e malaffare diffusa. A fronte della pioggia di milioni che cade sui partiti, questi ultimi sono praticamente estranei ad ogni tipo di controllo serio da parte di terzi, così che è facile per i capi di turno mettere le mani nella marmellata. Non bisogna dimenticare che i partiti pur essendo alcune delle forme di associazionismo contemporaneo tra le più importanti in termini di ricchezza e potere, almeno in Italia non sottostanno a forme di controllo o tutela specifici. L’art. 49 della Costituzione, infatti, prevede la possibilità che i cittadini possano unirsi in associazioni politiche, richiedendo unicamente che tali associazioni abbiano una struttra democratica, da verificarsi caso per caso. Sulla base di tale enunciato costituzionale i partiti, così come i sindacati cui è previsto un articolo ad hoc della Costituzione, prediligono una forma giuridica, quella dell’associazione non riconosciuta, che lascia loro ampie libertà, soprattutto dai controlli più o meno invasivi dello Stato. D’altra parte, ciò è in parte un bene, perché garantisce che nessun potere pubblico possa intromettersi nelle questioni interne ai partiti, interferendo con la loro attività o volontà. Tuttavia diventa un problema laddove venga eluso ogni controllo non già sulle iniziative poste in essere dai partiti, bensì sul finanziamento pubblico eseguito con i soldi dei contribuenti. Negli ultimi giorni si è saputo che alcuni documenti riguardanti lo stato patrimoniale della Lega, poi sequestrati dalla magistratura, fossero custoditi dentro una cassaforte presente presso la presidenza della Camera. Perché proprio a Palazzo Montecitorio? Semplice, perchè a controllare dei bilanci dei partiti, infatti, è proprio la presidenza della Camera come previsto dalla sopracitata legge 2/ 1997, dunque da un organo dello Stato che è comunque influenzato dai partiti e non da un potere estraneo come potrebbe essere la Corte dei Conti, la quale è, invece, tenuta esclusivamente a verificare solo il rendiconto delle spese elettorali. Se a ciò aggiungiamo che proprio la forma giuridica assunta dai partiti, quella dell’associazione semplice, cioè non riconosciuta, non preveda particolari controlli da parte dello Stato ma solo dei suoi associati, è facile comprendere come l’ex tesoriere leghista Belsito avesse potuto effettuare le presunte operazioni irregolari di bilancio contestategli dalla magistratura. Inutile aggiungere che è doveroso difendere e rispettare l’autonomia dei partiti, perché in quanto associazioni di cittadini essi esprimono comunque interessi individuali espressamente riconosciuti e tutelati dalla Costituzione. Ma cosa fare quando delle associazioni private sono chiamate a ricevere, dunque a gestire, soldi pubblici e quindi dei contribuenti? Inutile ribadire anche qui che urgono norme diverse, soprattutto in fatto di controllo e vigilanza. Non si spiega moralmente che interessi possa avere un partito italiano – pardon, padano! – come la Lega a investire decine di migliaia di euro in Tanzania, per operazioni commerciali degne di un fondo d’investimenti qualunque. Del resto se simili associazioni dispongono nelle loro casse private di simili “tesoroni”, a chi vuoi non venga la tentazione di “prendere in prestito” un po’ di quattrini per rifare il terrazzo di casa propria oppure per pagarsi la laurea all’estero? Ci dispiace quindi sentire l’onorevole Cicchitto opporre un secco “no” alla proposta del ministro della giustizia Severino di rivedere l’attuale sistema di finanziamento pubblico. Il deputato del Pdl ha risposto affermando che simili questioni non rappresentano la priorità dell’attuale governo tecnico, perché di “scarsa rilevanza nazionale in questo momento”. Come sarebbe onorevole? Ci scusi, ma non riusciamo a capire: la legge sulla corruzione, la riforma della prescrizione, la ristrutturazione della Rai, l’assegnazione delle frequenze televisive e, da ultimo, il finanziamento pubblico ai partiti, non sono materie d’interesse per il governo tecnico? E’ vero che Monti e compagnia debbono rispondere al Parlamento ma quest’ultimo, allora, a chi risponde? Ai partiti forse? Non deve rendere conto, invece, al popolo che ne ha votato i membri in quanto suoi rappresentanti, come sancito dalla Costituzione e ricordato da quella cantilena tanto amata dall’ex premier Berlusconi – quando era indagato – “la maggioranza risponde al popolo che l’ha democraticamente eletta, non ai magistrati?” Siamo abituati ad alcuni strafalcioni come quello secondo cui i deputati non debbono rispondere ai giudici, anche se questi a loro volta sottostanno alla legge, che è espressione della volontà della nazione. Tuttavia non siamo ancora abituati a sentirci dire che che la Rai, la giustizia o il finanziamento dei partiti non rappresentano oggetto dell’interesse nazionale. E’ premuroso pensare che i politici si preoccupino di cosa ci interessi o meno, tuttavia in questo caso ci sembra che laddove sia presente anche solo un centesimo dei contribuenti, lì ci sia l’interesse di ogni singolo cittadino. Non vorremmo che dopo lo slogan “no martini, no party”, ci fosse “no money, no partiti”.