di Marco Chiappetta
TRAMA: Buenos Aires – Roberto De Cesare (Ricardo Darìn), ferramenta scorbutico e pignolo, vede la sua vita solitaria, abitudinaria, serenamente monotona, sconvolta dall’incontro con Jun (Ignacio Huang), un cinese che conosce solo la sua lingua e che in Argentina cerca uno zio e una nuova vita, dopo che una vacca piovuta dal cielo ha ucciso la sua fidanzata. Controvoglia Roberto gli dà ospitalità e lavoro, e la strana e difficile convivenza – acuita dall’impossibilità a comunicare, dalle differenze culturali e linguistiche e personali, ma anche da un comune rispetto e una comune sofferenza – gli apre gli occhi sulla sua esistenza, risvegliando fantasmi del passato e paure del presente, come l’amore sincero di Mari (Muriel Santa Ana).
GIUDIZIO: Ispirato da un assurdo fatto di cronaca davvero accaduto in Giappone (una pioggia di vacche cadute da un aereo di criminali che le avevano rubate), Sebastiàn Borenzstein ha costruito un’intera storia – di destino, vita, umanità, diversità, amicizia – partendo da un aneddoto impossibile e tragicomico in Cina che dà il la a una commedia umana squisita, dolcissima, argentina nel midollo, dall’umorismo surreal-grottesco all’irriverenza caustica, con la solita malinconia da tango: un racconto semplice e non semplicistico dei casi della vita, delle differenze (linguistiche culturali personali) di due mondi opposti che si capovolgono e si incontrano, e delle uguaglianze universali di solitudine, sofferenza, solidarietà, voglia di riscatto. Nulla è prevedibile, e la dolcezza non è mai melensa: così che l’addio tra i due – così diversi, così vicini e soli – è freddo e coerente. Però qualcosa, negli occhi e nell’anima, si è mosso: e due vite sfiorate possono cambiare, rinascere, da questo scontro. Roberto è uno Scrooge più giovane ma sempre tormentato e annientato dagli scheletri dell’armadio, arrugginito in una vita grigia, ferrea e meccanica come ciò che gli dà il pane: estraniata, senza emozioni, rifiutante tutto, vi ha un calendario di rituali quotidiani meticolosi (coricarsi alle 23 in punto, addobbare la vetrina-santuario della madre con statuine di vetro, contare uno a uno i chiodi, ritagliare e collezionare articoli di notizie assurde dal mondo), dolori sepolti (la madre morta di parto, la guerra delle Malvinas, il padre morto per un tragico equivoco), un distacco, una rabbia cinica, che rispondono tutte a un’umanità lacera, a tutto tondo, sofferta, malinconica, di cui Ricardo Darìn, il miglior attore argentino, si fa occhi, volto, mimica. Il film, scritto diretto interpretato con naturalezza esemplare, fila liscio senza sbavature: semplice, di cuore, divertente e folle, dolce e amaro, col sapore e il respiro della vita come partita persa in partenza ma sempre pronta a essere ribaltata, per caso o destino o volontà, o per una vacca piovuta dal cielo.
Premiato al festival del cinema di Roma, come sempre ormai una garanzia per il grande cinema di nicchia. Titolo originale: “Un cuento chino”.
VOTO: 3,5/5