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Il paese che non ascolta

di Giacomo Palombino

“Sono gusti!”: è questa l’espressione che utilizziamo quando una persona dichiara una preferenza diversa dalla nostra, quello che diciamo quando ci rassegniamo alla scelta di qualcuno per una determinata cosa, quando noi ne avremmo scelta una completamente diversa. Rassegnarsi ritengo che sia infatti la cosa più giusta da fare, o forse, l’unica cosa da fare; possiamo provare a convincere, a dissuadere, a deviare le scelte degli altri verso le nostre preferenze, ma la maggior parte delle volte tutto questo non funziona. È quindi assodato che ognuno ha i suoi gusti, ognuno il suo target, il modello in base al quale compra il prodotto X escludendo il prodotto Y. In breve, quando parliamo di una scelta parliamo sempre di qualcosa di estremamente soggettivo: è per questo che una preferenza, presa singolarmente, non può essere criticata, o meglio, può essere non condivisa, ma necessariamente accettata.
Il problema si pone, però, quando una scelta non è più individuale, ma diviene collettiva; quando cioè non è solo una persona a preferire il prodotto X e ad essere criticata per questo, ma quando sono cento le persone a preferire lo stesso prodotto. Qualcuno potrebbe giustamente dire che, se la stessa preferenza viene espressa da un numero più elevato di individui, la stessa non è suscettibile di critica. Nella pratica però, “nella vita reale”, le scelte di massa sono invece oggetto di giudizi negativi. Per questo è necessario un collegamento ad un articolo pubblicato tempo fa su questa rubrica, “Dall’arte al consumo”, dove si è affrontato il tema della musica cosiddetta “commerciale”. La conclusione del presente intervento è simile, ma la voglio proporre in una diversa prospettiva.
Non credo del tutto nelle classifiche musicali pubblicate spesso su riviste o siti internet. O meglio, non credo che questo modo di analizzare la musica contemporanea sia il migliore per rendersi conto della variegata realtà artistica che ci circonda. È vero però che neanche si può essere indifferenti nei confronti dei fenomeni di maggiore diffusione e quindi di maggiore notorietà che radio e canali musicali cercano di proporre e far apprezzare quotidianamente. Basarsi, per esempio, sul numero di vendite di un determinato album è un modo veloce e forse anche “sintetico” per capire quali sono i gusti più diffusi. Le classifiche a cui si sta per fare riferimento sono due: una si riferisce agli Stati Uniti, e precisamente il sito che potete consultare è “Billboard”; l’altra è italiana, fonte “FIMI”. In poche parole, voglio provare un esercizio semplice ed agevole per chiunque, cioè un’analisi comparata.
I dati ultimi che ho consultato già individuano una differenza fra le preferenze americane e quelle italiane, una differenza rilevante, non del tutto abissale, ma sicuramente degna di essere sottolineata. Non preoccupano troppo le prime posizioni: in Italia troviamo Vasco Rossi, tornato a farsi sentire con “L’altra metà del cielo”, progetto interessante, nuova esperienza per il rocker romagnolo che consiglio a tutti di ascoltare; dall’altra parte dell’Oceano troviamo invece Lionel Richie, ex frontman dei Commodores, band degli anni Settanta, con il suo nuovo lavoro da solista intitolato “Tuskegee”. Questo dato non è del tutto rilevante in quanto i due artisti ricordati godono di un’ampia diffusione nei loro rispettivi paesi di origine. Le seconde posizioni, invece, evidenziano una differenza molto più ampia, per non dire imbarazzante, sia a causa della qualità di due diversi stili musicali, sia per i personaggi che se ne fanno interpreti: negli USA abbiamo Adele con “21”, mentre in Italia Marco Carta con “Necessità Lunatica”. Questo dato non richiede commenti. In realtà considerazioni ancora più interessanti le offrono le classifiche di qualche mese fa, che vedevano primi classificati i Lamb of God da una parte e Tiziano Ferro da un’altra: insomma, se gli americani si sono dati al rock più sfrenato, all’Heavy metal che conta, noi (un “noi” assolutamente impersonale) abbiamo preferito il pop sdolcinato, il pop più ripetitivo, o forse, la musica che conta poco.
Queste considerazioni potrebbero essere facilmente fraintendibili, ma attenzione. Non si vuole qui dire che determinati artisti o generi musicali non debbano essere seguiti ed ascoltati: ma si vuole sottolineare una minore attenzione della gran parte del pubblico italiano nei confronti di alcuni generi musicali, di una parte insomma del panorama musicale internazionale che non viene presa in considerazione. La conclusione di tutto questo è che la cultura musicale del nostro paese è in media meno ampia rispetto a quella di altri: nel complesso, dal rock più alternativo al jazz più raffinato, le classifiche dimostrano una scarsa attenzione degli italiani.
Questo è il paese che non ascolta. E’ vero, una scelta non è criticabile. Purché, però, si tratti di una scelta. Questa comporta l’obbligo di ascoltare, criticare ed in fine preferirem mentre dalle nostre parti si inizia con il preferire, si prosegue con il criticare, e, se qualcuno riesce ad attirare l’attenzione, si finisce con l’ascoltare.