di Valentina Cuomo
I siti di prevendita e le programmazioni di alcuni teatri italiani recitavano: “Loreena McKennitt, indiscussa signora del genere definito “celtico eclettico”, annuncia le date del suo primo tour dal 2008, il “Celtic Footprints Tour” che la porterà in Italia per quattro concerti: il 16 Aprile al Teatro Geox di Padova, il 17 al Teatro delle Celebrazioni di Bologna, il 18 all’Obihall di Firenze e il 19 all’Auditorium Parco della Musica in Roma. Il tour attraversa undici paesi europei per ventinove concerti, con debutto il 17 Marzo a Zurigo e gran finale il 24 Aprile a Barcellona”. Successivamente, ne sono stati aggiunti altri, prorogando la fine del tour al 26 dello stesso mese.
Le date italiane, dunque, sono da meno di una settimana un vivo ed emozionante ricordo: Loreena e gli artisti che l’hanno accompagnata hanno incantato il pubblico con la loro musica e attualmente, già da un paio di giorni, sono in Spagna, dove avranno luogo le ultime tappe del tour.
Una settimana fa, al Teatro Obihall di Firenze, la sensazione che sarebbe stato un concerto diverso dal solito arriva subito. Manca poco all’inizio dello spettacolo, quando un membro dello staff invita gli accorsi a non usare fotocamere e videocamere: i loro flash e i display luminosi potrebbero disturbare gli artisti e la loro concentrazione. Richiesta insolita. Eppure, con il senno di poi, questo accorgimento così atipico ha permesso di godere di un’atmosfera estremamente coinvolgente. Sul finire concerto, poi, sarà la cantante stessa a consentire di fare foto, sempre comunque in un arco di tempo limitato.
Spente le luci in sala ed accese quelle di scena, prendono posizione sul palco i musicisti: alcuni già noti al pubblico per aver accompagnato Loreena McKennitt (voce, pianoforte, fisarmonica ed arpa) anche nelle tournée precedenti, come Caroline Lavelle (violoncello, seconda voce, flauto dolce), Hugh Marsh (violino) ed Brian Hughes (chitarra elettrica ed acustica, oud, bouzouki celtico, guitar-synth), mentre nuovi “compagni di viaggio” sono Roy Dodds (batteria e percussioni), Ben Grossman (bodhran, fisarmonica, ghironda, percussioni), Ian Harper (cornamusa, bombarda, clarinetto turco, flauti), Tony McManus (chitarra acustica, bouzouki celtico, mandolino) e Dudley Phillips (contrabbasso, basso elettrico). Oltre allo stupore di fronte ad una tale varietà di strumenti, si presenta una schiera di musicisti polivalenti e decisamente talentuosi.
La scaletta dello spettacolo, diviso in due parti, si apre con un brano strumentale dall’intro soffusa, “Spered Hollvedel” di Alan Stivell, seguito dal ritmo incalzante di “Morrison’s Jig”, ottimi per scaldare l’atmosfera ed accogliere sul palco la cantante canadese, che, accompagnandosi con l’arpa, interpreta una brillante “Bonny Portmore”, estratta dall’album “The Visit”, pubblicato nel 1991. Si susseguono interessanti selezioni del suo vasto repertorio, minuziosamente costruito, album dopo album, dal 1985 ad oggi, nel quale Mrs. McKennitt ha esplorato le radici della musica celtica, in un viaggio (musicale, metaforico e reale) che l’ha portata dall’Asia Minore all’Irlanda: forte è la presenza dell’ultimo album dal quale esegue “The Star of the County Down”, (“The Highwayman”, invece, è dall’album “Book of Secrets”), e, ancora, “The Emigration Tunes”, “As I Roved Out”, “Down by the Sally Gardens” e “The Bonny Swans” da “The Mask and the Mirror”, del 1994.
La sua voce limpida è superbamente intrecciata con quella di Caroline Lavelle, che, in alcuni passaggi, l’accompagna, donando profondità e sentimento ai versi; la musica è travolgente e gioiosa, l’atmosfera pare non essere reale: l’intervallo di circa venti minuti permette a stento allo spettatore di riprendere coscienza di sé, poiché, in men che non si dica, lo spettacolo ricomincia con la canzone omonima dell’ultimo studio-album dell’artista, “The Wind That Shakes the Barley”; passando per “Raglan Road” (presente in “An Ancient Muse” del 2006), “All Souls Night” (in “The Visit”, del ‘91), “Santiago” del 1994; “The Stolen Child” (dall’album d’esordio, “Elemental”, del 1985), “The Lady of Shalott”, “The Mummer’s Dance” (da “Book of Secrets” del 1997), arrivando a “The Old Ways”.
Ogni brano è come una tappa, ogni nota come un passo, all’interno di una traversata lunga, appassionante, che incuriosisce sempre più, senza stancare mai.
Sembra, tuttavia, arrivato il momento di salutare questa magnifica esperienza: gli artisti scompaiono dietro le quinte, il pubblico applaude, in piedi, aspettando – come da copione – un encore che non tarda ad arrivare: con “Never-ending Road (Amhràn Duit)”, tratto dal già citato “An Ancient Muse” (album dalle sonorità mediorientali ispirato da alcuni viaggi tra gli anni 2000 e 2005, in particolare in Grecia) e “The Parting Glass” i nove artisti si congedano, avvolti da uno degli applausi più calorosi che un teatro possa regalare.
Un concerto che conduce il pubblico in un viaggio nel tempo e nei luoghi, a bordo di un’immaginazione che solo la musica potrebbe evocare.