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“Ohana” significa famiglia

di Gianmarco Botti & Renata Rallo

Padri adottivi, matrigne, orfani e orfanelle. L’importanza della famiglia nei film Disney il più delle volte è sottolineata dalla sua assenza. La stessa assenza che il piccolo Walt deve aver vissuto sulla sua pelle. Lui, che ha regalato a intere generazioni di piccoli spettatori un’infanzia straordinaria, fatta di storie e personaggi che riscaldano il cuore, ha sperimentato cosa significa essere un bambino e sentirsi solo proprio lì dove ogni solitudine dovrebbe essere bandita: in famiglia, appunto. Una figura paterna troppo simile ad un monarca assoluto, una sorta di Grande Principe della Foresta come quello di “Bambi”, irraggiungibile nel suo olimpico distacco, del quale si cerca l’attenzione senza mai riuscirne ad incrociare lo sguardo; una madre buona ma debole, totalmente incapace di opporsi all’arbitrio del capofamiglia e quindi in definitiva assente per i suoi bambini, come la celebre mamma cervo che, caduta sotto i colpi di un fucile invisibile, riempie l’intero film di un doloroso senso di perdita. È questo il modello di famiglia che il futuro genio dell’animazione ha conosciuto fin dalla più tenera età e di esso è rimasta traccia nei suoi capolavori. D’altra parte la famiglia è il primo nucleo, quello fondamentale, in cui l’uomo si trova immerso e dal rapporto che egli instaura con gli altri componenti dipende il grosso delle sue scelte e orientamenti futuri. La famiglia è il luogo di ritrovo dell’uomo, dove egli si sente “a casa”. A casa perché è cresciuto fra quelle mura, mura affettive e non necessariamente materiali, a casa perché conosce e riconosce le persone intorno a lui, a cui è congiunto da legami di sangue e di affetto. Certamente le relazioni fra i membri all’interno dell’istituto familiare non sono simmetriche, specialmente quelle fra genitori e figli: questi ultimi, secondo l’attenta analisi sociologica lockiana, “non nascono in perfetto stato di uguaglianza (rispetto ai genitori), sebbene nascano in vista di esso”. La famiglia protegge i più deboli, soprattutto gli infanti, e permette loro di crescere in un ambiente sicuro. “Famiglia significa che nessuno viene abbandonato o dimenticato”, recitano più volte i protagonisti di “Lilo & Stitch”, classico di ultima generazione in cui il concetto di “Ohana” (famiglia, appunto, nella cultura tradizionale hawaiana) occupa un posto centrale. Una famiglia, quella di Lilo, che è “piccola e disastrata, ma bella”, composta da due sorelle (Nani, la più grande, si prende cura della piccina) e dal loro curioso “cane” Stitch, in realtà uno scatenatissimo alieno dall’incredibile forza distruttiva che nel corso del film imparerà cosa significano il calore e l’amore di una famiglia. Anche se non incarnano propriamente il modello tradizionale di famiglia, Nani, Lilo e Stitch costituiscono un piccolo nucleo indipendente la cui esistenza si fonda su vincoli di affetto, pazienza, compassione. Stitch in primis deve imparare a gestire il suo livello di cattiveria, che è “decisamente alto per uno delle sue dimensioni”, per riuscire a convivere con gli altri. Convivere, dal latino “cumvivere”, composto dal verbo “vivere” e dalla particella “cum” che unita ad un ablativo indica il complemento di compagnia o unione: il convivere è dunque un vivere con qualcun altro, un vivere civile basato su una qualche forma di contratto sociale, come in Hobbes. Ma nella famiglia la convivenza non nasce solo da un contratto, perché quello hobbesiano è fondato sulla paura che l’uomo ha dell’estraneo, dell’altro da sé, mentre nella famiglia l’altro è un “alter ego” e cioè un “altro me”. Fondamento di quel particolarissimo tipo di “contratto” che dà origine alla famiglia, è pertanto la fiducia, l’amore che lega due o più persone.
In una famiglia si impara ad amare, dunque, a sacrificarsi, a mettere da parte se stessi per aprirsi a qualcosa di più grande. Nani deve lavorare e fare immensi sacrifici nella speranza di poter conservare la custodia della sorellina (continuamente messa a rischio dalle incursioni di un terrificante assistente sociale), arrivando a negarsi qualunque divertimento personale, come la frequentazione del gentile e comprensivo David. Il sacrificio nasce dunque dall’affetto. E non esiste sacrificio più grande di quello che porta la protagonista di un altro capolavoro Disney, “Mulan”, a mettere a rischio la propria vita per salvare quella del padre. La famiglia di Mulan è molto diversa da quella di Lilo: è una famiglia antica, i cui componenti sono legati soprattutto dal sentimento dell’onore e dal rispetto di un comune passato che si incarna nelle evanescenti figure degli antenati, spiriti dei familiari morti che vegliano sulla casa e sui suoi abitanti, alla maniera dei Lari romani. La giovane Mulan, figlia unica, è solo una ragazzina quando viene accusata di poter anche “sembrare una sposa” ma di essere incapace di portare onore alla sua famiglia, e questo la induce ad una vera e propria “crisi esistenziale”, a non riconoscere più se stessa nel proprio “riflesso”, ciò che sa di essere in ciò che gli altri vedono in lei. È anche per questo che decide di partire per la guerra al posto del padre: “forse quello che volevo veramente era dimostrare che riuscivo a cavarmela, e guardandomi allo specchio avrei visto qualcuno che valeva”, confessa in un momento di sconforto. E sì, perché se è vero che la famiglia forma, guida e sostiene, è vero anche che talvolta essa si trasforma in una realtà soffocante e oppressiva, che schiaccia la personalità dei suoi componenti e ne impedisce la realizzazione come individui autonomi.
Ecco allora che Mulan, per conquistare la propria individualità, deve partire, rompere i legami con la famiglia e combattere la “sua” guerra. La separazione dalla famiglia però, si badi, non è da intendere come una rottura radicale e definitiva, no: Mulan parte in compagnia di un logorroico draghetto, Mushu, inviatole dai suoi antenati per vegliare su di lei. E cosa rappresenta Mushu se non ciò che della nostra famiglia, del nostro nucleo primordiale, ci portiamo dietro sempre e comunque, ovunque noi andiamo? Tutti noi abbiamo un’eredità familiare con cui siamo cresciuti e con cui dobbiamo sempre fare i conti. Anche il “Re leone” ce l’ha insegnato: nel secondo capitolo della storia di Simba oramai grande, più di una volta risuona il verso “nei tuoi perché, nel tuo riflesso, lui vive in te”. La famiglia dunque continua ad accompagnarci per tutta la vita, non importa quanto forte sia la nostra volontà di distaccarcene, spaventati dall’idea di rimanere legati ad essa e non riuscire ad emergere come “io”. Ma forse ciò che dovremmo imparare a compiere non è un distacco traumatico, bensì un progressivo allontanamento per aprirci all’esterno, perché il mondo “di fuori” altro non è che un vivere insieme, un vivere di legami di cui la famiglia è la prima scuola. Alla fine Mulan potrà tornare a casa portando onore alla sua famiglia (segni concreti ne sono la spada del nemico sconfitto e il ciondolo dell’imperatore) e a se stessa: l’arrivo, poi, del bel capitano Shang che, come lascia presagire il finale del film, non si fermerà solo “per cena”, ma certamente resterà “per sempre”, è il segno che quel fiore così in ritardo rispetto agli altri finalmente è sbocciato e con esso anche il nucleo di una nuova famiglia. La scelta coraggiosa di Mulan favorisce il passaggio dalla famiglia fondata sull’onore a quella fondata sull’amore, che è poi il passaggio dalla famiglia tradizionale a quella intesa in senso moderno: un’Ohana dove c’è posto per tutti e dove “nessuno viene abbandonato o dimenticato”.