di Gianmarco Botti
“Una casa non può essere divisa in parti separate. Io credo che questo stato non possa essere composto per metà di schiavi e per metà di uomini liberi. Non voglio che l’Unione si sciolga; non voglio che la casa crolli; voglio invece che la smetta di essere divisa. Ma una cosa esclude l’altra”
Ci sono date che hanno cambiato la storia. Il 12 febbraio 1809 è una di queste: mentre in una cittadina della contea dello Shropshire, in Inghilterra, nasceva il futuro naturalista Charles Darwin, al di là dell’Oceano veniva al mondo, in una fattoria del Kentucky, un certo Abraham Lincoln. Il primo, sfidando le Sacre Scritture e le credenze del tempo, avrebbe rinsaldato i legami fra l’uomo e il mondo animale. Il secondo, ispirato dai precetti morali della Bibbia (e da quelli economico-politici del capitalismo democratico), avrebbe restituito a molti suoi concittadini, fino ad allora considerati alla stregua di animali, la dignità di uomini. E, proseguendo il parallelo, si può dire che, se Darwin è stato il teorico dell’evoluzionismo in campo scientifico, Lincoln ha svolto il ruolo di attivo protagonista della più straordinaria evoluzione politica e sociale che gli Stati Uniti avessero mai conosciuto. Non male per un presidente in cui da principio nessuno, neppure all’interno del suo partito, aveva riposto grandi speranze: uomo di scarsa esperienza politica, dalla figura fragile ed emaciata e per niente abile in società, difficile credere che sarebbe stato in grado di affrontare la terribile crisi scoppiata con la secessione del Sud. Ma, a dispetto di tutti i pronostici, Lincoln si rivelò l’uomo giusto al momento giusto. La sua capacità di scuotere gli animi con un’oratoria appassionata ed a tratti misticheggiante, che attingeva ad una solida fede in Dio e nel suo piano di salvezza per la nazione americana, unita alla grande integrità che gli fece meritare il soprannome di “Honest Abe”, ne fecero un leader carismatico e rassicurante, una sorta di grande eroe del Bene impegnato in una battaglia morale prima ancora che politica contro il Male, rappresentato dal Sud schiavista. Eppure il candidato Lincoln, arrivato alla Casa Bianca praticamente solo grazie ai voti degli stati liberi, più di una volta nel corso della campagna elettorale aveva affermato di non avere alcuna intenzione di abolire la schiavitù dove essa già esisteva. Una volta eletto, inoltre, aveva mantenuto inizialmente un atteggiamento di cauta sopportazione nei confronti degli stati che avevano attuato la secessione: riteneva che l’Unione fosse perpetua e che nessuno stato potesse separarsene di propria iniziativa, ma escludeva la possibilità di un intervento militare da parte del governo. Solo l’attacco dei confederati alla base federale di Fort Sumter, nell’aprile del 1861, poté piegare la pazienza del presidente che, sull’onda di un’esplosione di fervore patriottico, indisse l’arruolamento di 75000 soldati per un periodo di tre mesi e ordinò il blocco navale intorno ai porti del Sud: la Guerra Civile era cominciata. Gli storici riconoscono in essa la prima grande guerra moderna, combattuta per lo più da volontari e fomentata da uno scontro ideologico senza precedenti. Di fatto fu una terribile carneficina, che vide per la prima e ultima volta gli americani combattere gli uni contro gli altri, fratelli contro fratelli. La posta in gioco però era altissima: bisognava fare in modo che “il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo non scomparisse dalla faccia della Terra”, secondo quanto il presidente affermò nel celebre discorso di Gettysburg. La sostanza etica della guerra di Lincoln venne fuori nella sua pienezza a settembre 1862, quando egli firmò un decreto di emancipazione per tutti gli schiavi americani che sarebbe entrato in vigore a partire dal 1 gennaio dell’anno seguente. Il cambiamento si annunciava epocale. La guerra, tuttavia, era ancora lontana dall’esser conclusa e ci vollero ancora più di due anni di durissimi scontri perché le truppe nordiste del generale Grant riducessero allo stremo l’esercito confederato del generale Lee. Il presidente Lincoln in ogni caso non arrivò a vedere la fine di quella che era stata la “sua” guerra: il 14 aprile 1865, mentre assisteva ad una rappresentazione al Ford’s Theatre di Washington, l’attore John Wilkes Booth, fanatico sudista, gli sparò alla testa. Lincoln spirò il mattino successivo. Di lì a venti giorni, l’esercito sudista avrebbe deposto le armi.
La morte violenta del presidente fu una vera tragedia nazionale e contribuì a circondare la sua figura di un’aura di santità laica che permane ancora. Il presidente che, per il solo fatto di essere stato eletto, rischiò di dividere irrimediabilmente gli Stati Uniti è oggi uno dei più solidi baluardi dell’unità nazionale americana, tanto da aver meritato, insieme a pochi altri, l’onore e l’onere di vegliare sul suo Paese dall’alto del mitologico monte Rushmore. Egli, primo presidente repubblicano in un momento in cui il “Grand Old Party” si proponeva come portavoce delle istanze di rinnovamento della società americana ed era assai lontano dal partito conservatore dei giorni nostri, con le sue scelte coraggiose, spianò la strada verso il futuro. E anche se il cammino dall’Emancipation Proclamation all’emancipazione reale della popolazione di colore non è ancora terminato, ma si rivela tutt’oggi in salita, non possiamo non pensare che, se quattro anni fa gli USA hanno eletto il loro primo presidente afroamericano, il merito sia anche un po’ del vecchio Honest Abe.