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Come si muore di lavoro

di Ilaria Giugni

Art. 1 Costituzione
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

Nel biennio 2010-2011, i morti sul lavoro in Italia sono stati 1079: 526 nell’anno 2010 e 553 nel 2011, con un tasso di incremento pari al 5%. Lo ha rilevato l’Osservatorio sicurezza sul lavoro Vega Engineering di Mestre, che ha provveduto a diffondere anche i primi dati per il 2012: i decessi, per il bimestre gennaio-febbraio, sono 64.
Il territorio più colpito nello scorso anno è stato il Sud, con un indice di incidenza pari al 29,3 (inteso come numero di infortunati ogni milione di abitanti).
Il report di Vega Engineering registra un dato agghiacciante: a morire sono i più giovani (lavoratori dai 15 ai 24 anni) e i più anziani (età compresa fra i 45 e i 64 anni).
La probabilità di un evento mortale sul posto di lavoro per un giovane è il 62% più alta che per la fascia di mezzo (25-44 anni).
Sulla vulnerabilità di chi è alla soglia della pensione gioca il fattore esperienza: per i veterani si ammorbidiscono spesso le misure di sicurezza, nella convinzione che la pluriennale carriera possa renderle superflue.

Art. 35 Costituzione
La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.

Causa più frequente del decesso sul posto di lavoro? Caduta di persona dall’alto. Palesemente si comprende quanto incida il mancato rispetto delle norme sulla sicurezza: dalla lettura del rapporto per il biennio 2010-2011, infatti, risulta che “analizzando le modalità con cui si perviene all’infortunio mortale, è possibile rilevare spesso una grave carenza di cultura della sicurezza”.
Vega Engineering sceglie significativamente di parlare di “cultura della sicurezza”, sottolineando quanto nel nostro Paese si usi ignorare anche le regole più elementari. Il motivo è chiaramente da riscontrarsi nella continua ricerca di massimizzazione del profitto: abbattere i costi delle misure di protezione significa più danaro, poco importa che equivalga anche a violazione dei diritti del lavoratore.

Art. 4 Costituzione
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

“Non tutti gli uomini sono chiamati a lavori specializzati. La maggior parte sono chiamati ad essere operai nelle fabbriche, nei campi o nelle strade. Ma nessun lavoro è insignificante. Ogni lavoro ha la sua dignità e la sua importanza e dovrebbe essere compiuto con diligenza e perfezione”.
Con queste poche righe Martin Luther King colse l’essenza stessa del lavoro: il suo valore sociale. Ciascuno con la propria professione, che sia uno spazzino o un poeta, contribuisce in maniera determinante alla vita della propria comunità.
Il lavoro rappresenta contemporaneamente progresso per il singolo e per la società in cui vive: ciascuno non dovrebbe essere solo padre e marito e le ore che mancano al week end, ma dovrebbe incarnare il proprio lavoro.
E non è una questione di stacanovismo, ma di passione per la propria professione, qualunque essa sia.
Questo è quanto detta la nostra Costituzione, o forse, più correttamente, auspica: perché se è vero che bisogna essere il proprio lavoro, è anche vero che bisogna trovarsi nelle condizioni di poterlo svolgere serenamente.
Assenza di misure di sicurezza e lavoro nero sono un morbo da cui il nostro Paese non sembra guarire, degradano la condizione del lavoratore e ne intaccano la dignità.
La pratica svilisce parole così belle – “…il progresso materiale o spirituale della società” – e può accadere che un concetto nobile rimanga prigioniero di un pezzo di carta.