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17. Andrew Johnson, l’erede mancato

Adrew Johnson, repubblicano (presidente dal 1865 al 1869)

di Gianmarco Botti

“Mi sia consentito di dire che io sono stato quasi sopraffatto dall’annuncio del triste evento che si è appena verificato.
Mi sento incapace di adempiere doveri così importanti
e di tale responsabilità come quelli che mi sono così inaspettatamente piombati addosso”
(Dal discorso pronunciato alla morte di Lincoln)

Morto un papa se ne fa un altro. Ma non sempre chi subentra è in grado di raccogliere l’eredità del predecessore. La morte violenta di Lincoln fu un vero shock per una nazione che usciva con le ossa rotte dalla Guerra Civile e ora, priva della sua guida coraggiosa e carismatica, si apprestava ad affrontare una sfida non meno difficile: la Reconstruction. Una ricostruzione non solo materiale, ma anche e soprattutto sociale attendeva gli Stati di nuovo Uniti, eppure sempre ancora lacerati da terribili divisioni interne. La domanda che si poneva con più urgenza era allora questa: in che modo ricostruire il Paese? Come ricucire i rapporti fra Nord e Sud, fra vincitori e sconfitti? Lincoln una risposta l’aveva data nel marzo 1865, all’inizio del suo secondo mandato, quando aveva promesso che la pace avrebbe significato “ostilità per nessuno, carità per tutti”. C’è da credere che, se il presidente fosse rimasto in vita, l’opera di ricostruzione del Paese sarebbe stata portata avanti in osservanza di quello spirito di conciliazione che aveva sempre animato le sue parole e non piuttosto, come avvenne in realtà, secondo una logica di rivalsa del Nord, che procedette ad una vera e propria occupazione militare del Sud. Ma, si perdoni il gioco di parole, se la Storia non si fa con i “se”, si fa certamente con i “ma” e il grande “ma” in questione, quello che condizionò pesantemente l’evolversi degli eventi, fu Andrew Johnson. Strappato in maniera improvvisa alla poltrona di vicepresidente che occupava da appena un mese, il nuovo inquilino della Casa Bianca condivideva il progetto di pacificazione di Lincoln, soltanto mancava totalmente della forza e dell’autorità per attuarlo. E così gli anni della sua presidenza rappresentarono una sorta di occasione mancata, il protrarsi di una stagione di acuti conflitti che dal piano sociale si trasferirono poi anche a quello istituzionale, dando vita al più duro scontro fra l’esecutivo ed il Congresso che il Paese avesse mai conosciuto. I limiti di Johnson erano tutti nella sua provenienza sociale e geografica (apparteneva alla fascia più povera della popolazione bianca del Tennessee, stato secessionista) e in quelle sue idee di uomo all’antica che lo rendevano poco sensibile all’acceso fervore ideale che animava il Partito Repubblicano nell’era post-Lincoln. Naturale, quindi, che il nuovo presidente fosse guardato con sospetto dalle correnti più radicali del suo stesso partito, quelle che premevano perché il governo attuasse una politica punitiva nei confronti del Sud. Nostalgiche dello spirito di crociata che aveva soffiato forte negli anni della guerra, esse contestavano a Johnson un’eccessiva clemenza verso coloro che avevano messo a repentaglio la vita dell’Unione ed erano contrarie a qualsiasi concessione alle esigenze degli sconfitti. Quando nel 1866 il presidente pose il veto a due leggi destinate a tutelare i diritti della popolazione di colore, dichiarandone l’incostituzionalità, lo scontro divenne inevitabile. Durissime accuse reciproche e volgari scambi di battute animarono il dibattito parlamentare, offrendo lo spettacolo di una politica rissosa e inconcludente e di un presidente più propenso a dare libero sfogo alla sua indole irascibile che a preservare il decoro della carica che ricopriva. Il Congresso tentò addirittura la carta dell’impeachment, cercando nell’operato di Johnson qualche prova di corruzione o tradimento che lo mettesse in stato di accusa. L’occasione propizia la offrì lo stesso presidente, quando alla fine del 1867 destituì l’ultimo radicale rimasto all’interno del suo gabinetto di governo. Il 24 febbraio 1868 la Camera dei Rappresentanti, con una maggioranza di 126 a 47, accusò Johnson di “gravi crimini e comportamento illegale nell’esercizio delle sue funzioni”. Quando si trattò però di votare sulla sua colpevolezza, la maggioranza di due terzi necessaria alla destituzione venne mancata di un solo voto: sull’ostilità dei parlamentari nei confronti di Johnson aveva alla fine prevalso il timore che un precedente del genere potesse danneggiare irrimediabilmente il prestigio della presidenza. Uscito vincitore dalla battaglia, il presidente risultò tuttavia notevolmente indebolito e per il tempo che rimase ancora alla Casa Bianca si dimostrò più incline ad assecondare i voleri del Congresso. Vero perdente di questo braccio di ferro istituzionale fu in ogni caso il Sud, il quale negli anni seguenti dovette subire le conseguenze di una Ricostruzione mancata.