di Marco Sarracino
Quando l’amministratore delegato FIAT, Sergio Marchionne, va in televisione, è sempre un piacere per un’economista/aziendalista ascoltarlo, non lo si può negare. Questa volta però ho provato ad uscire dai panni del futuro laureato in economia e ho ascoltato “il buon Sergio” con orecchio genuino.
I dati fornitici all’inizio della sua intervista nel salotto di Fabio Fazio sono allarmanti, ma oramai nemmeno tanto sorprendenti: l’Italia è al 118° posto su 139 paesi per l’efficienza lavorativa e al 48° per competitività del sistema industriale. Questo significa che tutti gli altri paesi europei, e non solo, hanno lavoratori che producono e lavorano molto più dei nostri. Significa che il nostro paese rispetto ai mercati emergenti (Cina e India) è totalmente arretrato, anche a causa dell’immobilismo dei non-investimenti fatti negli ultimi 10 anni. Altri dati, invece, riguardano più da vicino il primo produttore di automobili, non solo italiano, il cui reddito operativo dell’ultimo anno (che ammonta a 2 miliardi di euro) non contiene paradossalmente nemmeno un centesimo dei non-guadagni (ricavi-costi) degli stabilimenti italiani, o che un solo stabilimento FIAT in Polonia produce più di tutti e cinque gli stabilimenti presenti in Italia. Per farla breve: quasi tutto ciò che è FIAT in Italia non è altro che un peso morto.
In questa situazione, a dir poco paradossale, Marchionne incentiva gli investimenti del gruppo a cui fa capo e aggiunge di voler portare i salari degli operai italiani agli stessi livelli di quelli europei.
Proposte che meriterebbero almeno una discussione democratica, ma non funziona così. Soprattutto quando in uno stabilimento tre operai che criticano l’amministratore delegato bloccano una catena di lavoro composta da 120 lavoratori: questa al mio paese non è democrazia. Abbiamo visto in questi giorni scendere in piazza i lavoratori FIOM-CGIL, da sempre contro la gestione riformista degli ultimi anni della FIAT. I manifestazioni hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica, facendo intendere ad un normale cittadino che poco conosce le vicende aziendali/economiche italiane, che in questi mesi è in corso un’abolizione dei diritti dei lavoratori. A questi contestatori, replico citando altri dati: il 50% dei lavoratori italiani FIAT non è iscritto a nessun sindacato (evidentemente non si sente rappresentato dalle sigle) e soltanto il 12% degli iscritti lo è alla CGIL-FIOM. Numeri che dovrebbero contare sicuramente meno di quel restante 88% che vuole lavorare e che accetta la sfida di una gestione degli stabilimenti combinata. Le anomalie interne avrebbero, infatti, una gestione congiunta da parte dell’impresa e dei sindacati, in modo tale che questi ultimi siano responsabili e evitino episodi come il tasso di assenteismo di oltre il 50%, nei giorni in cui ci sono le partite della serie A.
Cosa emerge quindi? Quale sta diventando l’opinione che si ha dei sindacati che si autodefiniscono “rivoluzionari”? Sicuramente quello che traspare è che questi non accettino la vera rivoluzione del sistema industriale italiano, esprimendo una politica conservatrice e demagogica, facendoci restare fanalino di coda in Europa e oggetto di scherno del mondo intero.
Se questa è la sfida lanciata dall’uomo che ha portato la FIAT dal quasi
fallimento all’essere leader nel mondo (grazie anche all’acquisizione della Chrysler), io l’accetto senza timori. Abbiamo perso la “giusta rotta” da troppo tempo, e siccome sono stufo di vagare per mare, è ora che qualcuno ci traghetti al di là della crisi.