di Gianmarco Botti
“Rivendico soltanto di aver agito in ogni circostanza
secondo un sincero desiderio di fare ciò che era giusto,
in obbedienza alla costituzione e alla legge
e nel supremo interesse di tutto il popolo.
Se ho sbagliato, è stato nel giudizio, non nell’intenzione”
Gli anni di Johnson alla Casa Bianca avevano offerto all’opinione pubblica l’immagine indecorosa di un presidente impegnato in una lotta senza esclusione di colpi contro il Congresso e il suo stesso partito. Tutto questo mentre il Paese aspettava di essere ricostruito nelle sue fondamenta sociali e civili dopo la tragica stagione bellica. Ora il tempo dell’attesa era scaduto, bisognava passare all’azione per non perdere l’appuntamento con la Storia. Alle elezioni del 1868 i repubblicani si sbarazzarono di Johnson e scelsero il generale Ulysses Simpson Grant, capo delle forze unioniste nella Guerra Civile, colui che era stato il braccio armato di Lincoln e il responsabile materiale della vittoria del Nord e della riunificazione del Paese. Un curriculum, quello di Grant, che ne faceva una figura molto popolare, un vero eroe nazionale, e dava motivo di sperare che l’unità da lui riconquistata sul campo di battaglia potesse ora essere consolidata attraverso un’azione di governo avveduta e determinata. A dire il vero, in molti a Washington sapevano che il generale mancava totalmente di preparazione politica e di idee per realizzare la tanto rimandata Ricostruzione. Quello che nessuno, alla vigilia delle elezioni, poteva sapere era che negli otto anni dell’amministrazione Grant la politica americana avrebbe toccato il suo livello più basso, vivendo una stagione di corruzione e impopolarità quale mai si era vista prima. Non che Grant fosse un corrotto o che le decisioni da lui prese una volta entrato in carica fossero frutto di connivenza col malaffare. Soltanto, il nuovo presidente era terribilmente inadeguato al suo ruolo: conosceva poco il diritto federale, ignorava il funzionamento del sistema politico statunitense, considerava la carica presidenziale sostanzialmente simbolica e per questo si affidava molto ai suoi collaboratori, scelti sulla base di simpatia personale e riconoscenza elettorale. Un gabinetto composto da molti inetti e più di un disonesto gettò discredito sull’intera amministrazione e sul presidente, che diede prova di straordinaria ingenuità accettando consigli e regalie da personaggi di dubbia moralità. Già nel 1869 Grant fu sfiorato dallo scoppio del cosiddetto “scandalo dell’oro”, una grossa bolla speculativa preparata da due finanzieri senza scrupoli, tali Gould e Fisk, con l’appoggio del cognato del presidente. A seguito di un’operazione con cui gli speculatori avevano fatto salire vertiginosamente il prezzo dell’oro, il 24 settembre di quell’anno la borsa di New York precipitò nel primo “venerdì nero” della sua storia: centinaia di risparmiatori furono rovinati e un coro di critiche assalì Grant, il quale solo con un intervento tardivo era riuscito a far fallire la manovra autorizzando l’afflusso sul mercato di ingenti quantità di oro. Ciononostante Grant fu rieletto per un secondo mandato, provocando con la sua ricandidatura una frattura all’interno del Partito Repubblicano: un gruppo di dissidenti abbandonò il partito e diede vita ad una nuova formazione, quella dei Liberalrepubblicani. Tuttavia, Grant non aveva tratto insegnamento dagli errori passati e neppure questa volta seppe circondarsi di persone migliori: le dimissioni di innumerevoli ministri accusati di malversazione lo colsero praticamente alla sprovvista ed egli si vide costretto ad accettarle “con grande rammarico”. Colui che era stato un grande generale, è oggi ricordato come uno dei presidenti più mediocri che gli Stati Uniti abbiano mai avuto. Nel complesso si può però dire che, se l’amministrazione Johnson era stata notevolmente limitata nelle sue capacità di movimento dal conflitto con il Congresso, i problemi che il suo governo ebbe con la giustizia non impedirono a Grant di dare comunque un contributo alla Ricostruzione nazionale: il suo lascito politico è tutto nel XV emendamento alla costituzione, con cui venne garantito alla popolazione afroamericana il diritto di voto, e in quel “Ku Klux Klan Act” del 1871 che mise fuori legge la famigerata organizzazione razzista, provocandone lo scioglimento. Neppure i limiti e le mancanze dell’uomo, insomma, poterono arrestare il corso ineluttabile del Progresso.