di Vincenzo Sorrentino
Quest’articolo ha un prologo. Giorni fa passeggiavo in piazza Trieste e Trento, diretto alla Biblioteca Nazionale di Napoli, quando mi sento chiamare: “Scusi, giovanotto…”. Un signore sulla sessantina, ben vestito, alle mie spalle, mi fa cenno di tornare indietro. Convinto di aver perso qualcosa, torno sui miei passi. L’uomo mi fa notare un buco nella pavimentazione di sanpietrini in corrispondenza dello slargo tra Palazzo Reale e il teatro San Carlo. Segue una lunga filippica sull’immagine di Napoli, sulla percezione che ne hanno i turisti, sugli appalti concessi alla camorra e sul cemento composto per il 90% d’acqua e per il restante 10% di vero cemento. Non riesco a liberarmi di quel signore che “ha studiato un po’ più di me” e che ha tre lauree e sorrido imbarazzato. Vengo ripreso per il mio sorriso: “Lei ride, ma qui c’è da piangere!”, “Io mi sono battuto per far cambiare la pavimentazione in corrispondenza del Banco di Napoli a via Roma, ma hanno rifatto 20 metri di marciapiede e basta!”, “…se tutti si lamentassero, allora sì che accadrebbe qualcosa, che cambierebbe qualcosa…”
Quest’articolo prende spunto da quell’incontro e da quello a cui avrei assistito uscendo dopo circa un’ora dalla Biblioteca Nazionale.
Uscendo dalla biblioteca, prima di imboccare i portici che permettono di lasciare il complesso di Palazzo Reale si trova una grande scultura in cemento di Mimmo Paladino. L’opera, realizzata dall’artista, napoletano d’adozione, è intitolata Prova d’orchestra e ingloba il tetto che sovrasta l’attuale sala prove del teatro San Carlo. E’ stata donata dall’artista al teatro nell’ottobre del 2010, in occasione della ristrutturazione dell’intero lirico che ha visto, tra l’altro, la trasformazione della sua falegnameria in una moderna sala prove per l’orchestra. La scultura, “un’esplosione magmatica di cavalli come note musicali dall’ipogeo” (così la definiva Stella Cervasio nel suo articolo apparso su la Repubblica il 13 ottobre del 2010) ha diviso fin dall’inizio il pubblico tra entusiasti e scettici. L’inserimento di un “oggetto” così imponente avrebbe potuto incidere fortemente nella natura del giardino e dell’edificio, ma, d’altra parte, non era certo la prima volta che veniva collocata un’opera d’arte contemporanea in un contesto storico. Nel ‘95, ad esempio, lo stesso Paladino, all’interno di una mostra monografica distribuita tra le scuderie di Palazzo reale e Villa Pignatelli, realizzò una montagna di sale con i suoi caratteristici cavalli al centro di piazza Plebiscito, riproposta l’anno scorso in piazza del Duomo a Milano, in concomitanza con un’altra mostra monografica, “Paladino Palazzo Reale” presentata in un altro palazzo reale, quello milanese.
In occasione della vittoria dello scudetto del Milan, la montagna di sale dell’artista fu presa d’assalto dai tifosi e, come scrissero molti giornali, subì “atti di vandalismo”. L’artista intervenne a tranquillizzare quanti inorridirono davanti a quelle immagini di “scalata”, affermando che si trattava di “un interesse fisico dei tifosi del Milan” nei confronti dell’opera e che “il destino della Montagna è quello di essere scalata dai tifosi delle città in cui è esposta”.
Che i napoletani non fossero da meno rispetto ai milanesi in quanto a “interesse fisico” per l’arte lo si poteva immaginare e così, puntuali come sempre, gli “scugnizzi” si sono appropriati della scultura sulla quale salgono e scendono con le loro bici, facendo slalom tra i cavalli in acciaio e cemento e cimentandosi in pezzi di maestria. Ma non sono i soli. Anche i turisti o i semplici visitatori approfittano dei raggi del sole che hanno riscaldato la superficie di cemento per riposarsi un po’ e prendere un po’ di sole.
Se anche un “purista” può e deve piegarsi alle disposizioni date dall’artista vivente circa la fruizione della sua opera d’arte, c’è, tuttavia, qualcosa di intollerabile: le scritte che imbrattano l’opera.
Provo un fastidio (quasi fisico) nel leggere quelle scritte, nel pensare alla superficialità con la quale qualcuno ha deciso di lasciare il segno del proprio passaggio, deturpando, usando violenza ad un luogo o ad un’opera d’arte.
Ed è tenendo ben presente questo rifiuto, che mi chiedo se saprei rispettare l’eventuale imposizione dell’artista di lasciare spazio anche a quei graffiti, irridenti o indifferenti, come ad un’ulteriore integrazione dell’opera nella realtà circostante, che includa il prevalere dell’agire esterno sul prodotto della fantasia, della sensibilità, dell’ingegno, del complesso sentire di chi crea e, attraverso la percezione di chi, a sua volta, guarda, si spinge fino a voler ricevere una sensibilità altra, che legittimamente (chi può deciderlo, se non l’autore?) include l’appropriarsi o l’ignorare.
Quest’articolo ha anche un epilogo. Il suo fine, almeno inizialmente, era una denuncia dello stato conservativo di una scultura istallata nemmeno due anni fa in un contesto storico, ma si è poi evoluto in una riflessione sull’arte contemporanea, sul suo particolare status, sulla sua natura e sui diritti di un’arte interattiva e più partecipata da parte del pubblico. Chiedo a chi legge: ma non dovrebbe essere l’artista, soprattutto se vivente, a specificare ciò che è lecito “fare” e ciò che non lo è con la sua opera d’arte?