di Brando Improta
“Non vorrei mai far parte d’un club che accetti tra i suoi iscritti un tipo come me” (w. Allen)
1981-1989
Gli anni Ottanta, per Woody Allen, sono sicuramente quelli dei film più sperimentali. Tanti i generi e le soluzioni visive diverse che l’autore adopererà nel corso del decennio.
Il primo prodotto sfornato è forse, però, uno dei suoi peggiori: “Una commedia sexy in una notte di mezza estate” del 1982. Basato in parte sul film di Ingmar Bergman “Sorrisi di una notte d’estate”, è la prima apparizione in un film di Allen della sua terza compagna: Mia Farrow. Inizialmente il ruolo era stato scritto per Diane Keaton che, essendo occupata con la promozione di “Reds”, declinò l’offerta, dando il via alla lunga collaborazione fra Woody e Mia.
Il film è prettamente una commedia, ambientata agli inizi del ‘900, con le classiche tematiche psicanalitiche miste al pensiero (e al manifestarsi) della morte, e ai rapporti uomo-donna; risulta comunque essere uno dei meno divertenti e vivaci fra quelli leggeri di Allen, tanto che fu nominato ad un Razzie Award (Pernacchia d’oro) per la peggior interpretazione femminile (proprio Mia Farrow) e risultò uno degli incassi minori della sua carriera.
Dopo questo parziale scivolone, però, il regista realizzò uno dei suoi film più atipici e geniali: “Zelig”.
Girato interamente in bianco e nero come se fosse un documentario girato degli anni venti/trenta, la pellicola parla di Leonard Zelig (interpretato da Allen stesso) e di una sua presunta malattia, che lo porta al camaleontismo: si identifica e si trasforma nelle persone con le quali è a contatto.
Dopo “Zelig”, Allen decide di celebrare il mondo dei manager di seconda categoria di Broadway e dello Stand-Up Comedian, cioè dei comici che si esibiscono davanti al pubblico nei locali, cosa che lui stesso ha fatto in gioventù. Il film partorito è un piccolo gioiello: “Broadway Danny Rose”, che racconta appunto la storia di Danny Rose (Allen), scalcinato impresario di quart’ordine, che ha l’opportunità di riportare al successo un vecchio cantante e intrattenitore degli anni ’50. Girato ancora una volta in bianco e nero, con un cast di attori non professionisti, a eccezione dell’ormai onnipresente Mia Farrow. La pellicola è una commedia divertente ma amara, piena di situazioni insieme grottesche e realistiche, con dialoghi molto brillanti e una quasi-storia d’amore sullo sfondo.
Insieme a questo, Allen realizza un altro capolavoro: “La rosa purpurea del Cairo”, che lui stesso considera uno dei sei film che lui preferisce. Si tratta di una storia d’amore con risvolti fantastici, in cui un divo degli anni Trenta esce dallo schermo per abbindolare una sua assidua spettatrice. Ispirato a “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello e al film comico “Helzapopping” del 1941, “La rosa purpurea del Cairo” è un film delicato, in cui Allen non recita, passando la palla di protagonista a Jeff Daniels, attore spesso sottovalutato.
Nel 1987, Allen fa da narratore (fuori scena) al suo film “Radio Days”, in cui racconta la sua gioventù (impersonato da Seth Green), di come fu influenzata dall’infanzia, mescolando questo racconto a quello delle leggende sulle celebrità dell’epoca. Il film è l’unico in cui compaiono sia Mia Farrow che Diane Keaton (sebbene quest’ultima abbia un piccolo ruolo) e frutta all’autore un’altra nomination all’Oscar per la sceneggiatura.
Nello stesso periodo, e a distanza di ben undici anni, Allen partecipa in qualità di solo attore al film comico “Re Lear”, una ricostruzione moderna della tragedia di Shakespeare diretta da Jean-Luc Godarad, in cui Woody interpreta un montatore con le fattezze di un Alien.
Fra il 1987 e il 1989, inoltre, Allen completa quella che viene definita ‘trilogia bergmaniana’ (per il continuo ricorso ad elementi stilistici e narrativi propri del cinema di Ingmar Bergman), partita nel 1978 con ‘Interiors’, e che forse comprende i suoi film meno riusciti.
I due film che completano l’opera sono “Settembre” e “Un’altra donna” entrambi interpretati da Mia Farrow, entrambi incentrati su drammatiche figure di donne insoddisfatte, con dialoghi e atmosfere particolarmente pesanti. In generale, tranne alcune eccezioni, quando nei film Woody Allen non recita (e questi sono casi esemplari), si ha come l’impressione che l’intera vicenda scorra più lenta del solito, con dialoghi piatti e non all’altezza della verve e della brillantezza di altre commedie da lui scritte. In entrambi i film, Allen cerca di sfogarsi come autore “serio” per scrollarsi di dosso la fama del comico, scomodando citazioni troppo colte per un pubblico di massa e mettendo in piedi una fotografia dai colori smorti e un ritmo troppo spesso noioso. La stessa Farrow, brava in altre occasioni, risulta troppo ingessata per coinvolgere lo spettatore nei suoi drammi esistenziali. La sensazione di essere soltanto compitini ben eseguiti per compiacere una certa critica non abbandona mai queste pellicole, come quasi tutte quelle in cui Allen ha voluto smettere i panni del dissacratore di costumi per indossare quelli di regista serio e intimista.