di Marco Chiappetta
CANNES – Cannes, il sole, il mare, il tappeto rosso, le stelle, i papillon, il cinema. C’è aria di estate qui, grande entusiasmo, grande fiume di gente, curiosi, cinefili, papponi, giornalisti, produttori, attori, autori, chi il cinema lo respira, chi lo fa, chi lo ama, chi ne scrive, chi lo ignora spesso e per una volta se ne lascia finalmente affascinare. Durante il giorno è tempo di incontri, affari, aperitivi, il Palais des Festival è grande, enorme, e accoglie tutti gli spaesati, senza terra, con una sola patria che è quella in celluloide. Cannes è il cinema. Camminare in rue d’Antibes, coi suoi negozi scintillanti alla moda con gli smoking in vetrina, e poi il Boulevard de la Croisette coi suoi bar e i suoi immensi manifesti, la spiaggia infine, gli yacht, la costa, e ovviamente il mare che emoziona sempre: e ovunque di cinema si parla, si vedono i manifesti con Marilyn madrina-icona, la gente indaffarata con l’accredito penzolante che corre, parla, straparla.
Tutto esaurito per la prima di stasera, 16 maggio, con l’atteso “Moonrise Kingdom” del regista cult Wes Anderson e la cerimonia d’apertura della 65esima edizione del festival più rinomato e amato al mondo. Uno degli ultimi inviti, forse l’ultimo, un gioco del caso o un semplice errore, finisce a chi vi scrive: pur forte dell’accredito (non stampa) che non regge contro il prestigio di un vero invito, avevo fatto tardi, tutto esaurito, desolé. Un gioco del caso o un semplice errore (degli organizzatori, dei computer, del caso stesso), o semplice tenacia, semplice fortuna, e sono là alle 18, dopo aver rimediato rocambolescamente uno smoking all’ultimo minuto (quello rimediato alla men peggio all’entrata non andava bene abbastanza, non ci sono cascati) in un’avventura che forse varrebbe e durerebbe più di questo articolo, e che infatti non racconterò. L’apparenza inganna, dopotutto siamo tutti attori, e l’abito il monaco lo fa eccome, anche più: saluti, riverenze, toni gentili, per un attimo il tappeto rosso è anche per me, ma i flash sono per altri (Alec Baldwin, Eva Longoria, Jessica Chastain, Lana Del Rey, etc.).
E infine si entra, scortati e immersi tra la noblesse ben vestita, nel Grand Theatre Lumiére, quello delle grandi, uniche occasioni, c’è aria di gala, profumo ottimo delle donne, le donne coi tacchi come trampoli, le gambe come forbici, e gli uomini ricchissimi, eleganti, sfarzosi, del mondo che conta, e poi ci sono io, e l’infinita voglia che il cinema ispira, e una vita che sembra fatta di sogno, che è sogno. Un maxischermo ci informa delle ultime passerelle sul red carpet, e per un attimo si può anche essere rapiti da questa leggera splendida frivolezza, di dive che si espongono all’obiettivo come Mona Lisa e Nike di Samotracia, dive di vera bellezza, quasi intoccabili, quasi inavvicinabili, come i loro rispettabili accompagnatori, come chiunque qui è vestito da far sballare occhi e conti in banca. L’inferno sono gli altri, chi resta al di fuori, chi anche vestito ad hoc elemosina un biglietto last minute, chi spia, chi invidia, chi fotografa: a loro non resta poi che un tappeto rosso vuoto, qualche transenna, qualche serio buttafuori e polvere di stelle. Lo spettacolo è qui dentro.
“Moonrise Kingdom”, che apre il festival, è una commedia dolcissima, tenerissima, quasi fiabesca nel suo mostrare come normale il surreale e viceversa, sull’amore ai tempi del 1965 in un’isola del New England, e le avventure di due ragazzini soli e difficili, Sam (Jared Gilman), boy-scout orfano fuggito dal gruppo, e Suzy (Kara Hayward), ribelle figlia di borghesi: si scrivono, si danno appuntamento, si incontrano, si amano nella natura, si sposano, lontani dalle convenzioni e dagli altri, che vogliono riportarli alla vera vita fatta di ordini e rispetto e futura seria maturità: non sanno, non comprendono le loro solitudini. Vogliono solo riportarli all’ovile, alla comunità, al tranquillo sicuro nido familiare (per Sam, orfano, è il gruppo boy-scout che lo odia e sbeffeggia). La scomparsa del primo allarma i capi scout (Bruce Willis di nuovo grande e un buffissimo Edward Norton), e conseguentemente, scomparsa anche la ragazzina, sono i genitori di questa (Bill Murray, Frances McDormand) a cercarla: insieme l’unione fa la forza, ma l’amore dei due non conosce mezzi e ostacoli, compresa una rovinosa e quasi apocalittica tempesta, e loro tutto supereranno, a costo di vivere per sempre clandestinamente il loro pazzo sentimento, la loro infinita, infinitamente pura infanzia. Nulla stupirebbe in questa storia, se non che ad amarsi siano due poco più che bambini, che scoprono il bacio, la compagnia, l’avventura, la ribellione, e per lo stile, meticoloso e stralunato, fighetto e strappa-consensi, della regia: l’universo dei personaggi di Wes Anderson, dolce e infantile, ha una sua poesia, una sua spina dorsale che gli giustifica o gli perdona anche certe sviate narrative e cadute di tono, presunzioni di genialità più che vera genialità, ciò che non fa gridare a un grande film in senso letterale, ma piuttosto a un gioiellino tipico del cinema indipendente americano, dove grandi sono soprattutto le trovate e gli esperimenti di regia. Però anche ottima la scelta degli attori e delle musiche (Alexandre Desplat, brani in abbondanza di Benjamin Britten e del re della country Hank Williams, varia classica), e un senso di leggerezza, una nuova innocenza, che non si perde neanche dopo, ora che è notte, di nuovo tra le stelle, gli applausi, le televisioni, i flash, altra gente che prova, anche via elemosina, a entrare allo spettacolo di dopo, quello senza cast né clamori; anche ora che dovremmo ricordarci che era solo un film.