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Mille chili di mafia. Terrificante carica di tritolo per uccidere il giudice Falcone

24 Maggio 1992, prima pagina del "Roma"

Articolo pubblicato sul quotidiano “Roma” il 24 Maggio 1992 e qui riportato per gentile concessione dell’autore

di Raffaella Tramontano

PALERMO – Un tranquillo sabato, una serena serata di maggio. Il cielo sgombro, Palermo alle porte: l’aereo, partito da Roma un’ora prima, atterra a Punta Raisi. Il tempo di salire in auto e di dare le solite indicazioni all’autista: la Croma blindata del giudice Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo vola verso la città. Come sempre al centro del solito corollario di auto della scorta, ben cinque.
Nulla, nemmeno un indizio, sia pur il più piccolo, insignificante. Nulla, nemmeno un segno del destino, una premonizione. Proprio nulla lasciava presagire e nessuno credeva di immaginare, e tanto meno di poter assistere dopo, all’inferno.
Quando il corteo di auto transita all’altezza dello svincolo di Capaci, un paese a 20 chilometri dal capoluogo, sull’autostrada Palermo-Trapani, accade il finimondo. Come da prassi, la scorta si inserisce – in una curva giudicata pericolosa – tra la Croma del giudice e il bordo della strada. Ma il pericolo non viene da un solitario motociclista o da un’altra macchina con i killer della mafia a bordo.
Stavolta la morte prende le sembianze di un’esplosione violentissima, inaudita: le auto saltano in aria come schegge impazzite, ingovernabili, una scena agghiacciante di lamiere e corpi, di pezzi d istrada divelti dalla furia dell’esplosivo, il guardrail – quello che è rimasto attaccato a lembi di asfalto – piegato come una fettuccia di plastica liquefatta al sole. A terra, una voragine enorme, di circa venti metri di diametro. Sì, proprio l’inferno. Gli investigatori, un paio d’ore dopo il sopralluogo, parleranno di un ordigno confezionato con almeno mille chili di materiale esplodente, innescato con un congegno a distanza da mani assassine.
L’onda d’uro spazza via le auto della scorta e due macchine di passaggio sull’altra corsia, un Opel corsa e una Fiat uno verde, quelle di poveri innocenti ignari di tanta ferocia. Le vittime sono cinque: l’alto magistrato, la moglie e tutte e tre gli agenti che da tempo erano al servizio di Falcone. Si tratta di Antonio Montinari, Rocco di Cillo e Vito Schisano. Francesca Morvillo Falcone, giudice d’appello di Palermo, è rimasta per ore sotto i ferri in sala operatoria: gravissime lesioni riportate al cervello. Poco dopo le 23 la notizia ufficiale della sua morte. Disperate sono invece le condizioni dell’autista di Falcone, Antonio Costanza. Gli altri feriti dovrebbero essere otto, tra cui i coniugi austriaci Edward ed Eva Gabriel. Falcone è giunto al pronto soccorso dell’ospedale civico di Palermo a bordo di un’ambulanza in condizioni gravissime, disperate, intorno alle 19.
Si è compreso subito che non c’era nulla da fare: il responsabile del reparto Francesco Crisci, non ha potuto far altro che rilevarne l’arresto cardiaco. I medici ci provano, con tutti i mezzi possibili: il tentativo di rianimazione dura un quarto d’ora, minuto più, minuto meno. Ma non serve: il giudice spira. E l’Ansa, alle 19,43, lancia la notizia secca, nuda e cruda, terribile: “Il giudice Giovanni Falcone è morto”.
La salma è stata composta provvisoriamente in una saletta attigua al pronto soccorso. Molti colleghi ed amici dell’alto magistrato, da sempre impegnato nella lotta alle cosche mafiose, vi entrano per pochi attimi: la tensione, lo sgomento sono palpabili, nell’aria, come la rabbia che ovviamente si mescola alla commissione, alle lacrime.
Leonardo Guarnotta, Guido Lo Forte, Gianfranco Garofalo, Giusto Siacchitano, i procuratori aggiunti Elio Spallitta e Paolo Borsellino: nessuno parla, basta guardarli in volto per capire cosa è accaduto, costa sta accadendo. Solo il sostituto Gioacchino Natoli, fuori la stanza, si è lasciato andare ad una riflessione: “Se fossi morto io, sarebbe stato più semplice. Non si può vedere morire una parte di se stessi e sopravvivere. Non si può stare a contare i morti”.
In ospedale, una grande confusione, mentre in Sicilia è scattato lo stato d’allerta. Nel viavai di sirene, di autoambulanze, di giudici che arrivano, di elicotteri che atterrano, di curiosi che sostano fuori l’ospedale, si contano persino i morti e i feriti, ci sono dubbi anche sulla sorte della moglie di Falcone, che in serata viene data per morta, notizia successivamente smentita, poi tragicamente ufficializzata, in un rimbalzarsi di conferme e rettifiche che ha reso tutto ancor più drammatico.
E mentre i giudici compiono i primi rilievi sul luogo dell’attentato, ridotto ad un cratere lunare, e ricostruiscono i momenti del tragico fatto di sangue, arrivano due rivendicazioni: la prima è stata fatta con una telefonata alla sede Ansa di Palermo da un uomo di una sedicente organizzazione. “La Falange Armata ha lunga memoria e l’avviso lanciato come di consueto tramite quest’agenzia nei giorni scorsi aveva bene un senso. Seguirà un chiaro comunicato”. Analoga telefonata è giunta alla sede Ansa di Genova. Una seconda rivendicazione, probabilmente più credibile, è stata fatta a tarda sera al “Giornale di Sicilia”: un uomo ha detto che il boss Salvatore Madonia “si è voluto fare il regalo di nozze”. E in gran segreto proprio ieri il capoclan mafioso si era sposato in carcere. Nel corso della notte, gli inquirenti hanno ricostruito lo scenario dell’attentato: per uccidere Falcone, hanno sottolineato gli investigatori, è stata utilizzata una tecnica libanese, spesso messa in atto dai terroristi dell’Eta in Spagna. L’esplosione è stata talmente forte, violenta, che le linee elettriche e telefoniche sono saltate ed i vetri dei villini circostanti sono andati in frantumi. Per estrarre i corpi dei tre uomini della scorta, ridotta ad un groviglio di rottami, di lamiere ancora fumanti quando i primi soccorritori sono giunti sul posto, i vigili del fuoco hanno impiegato oltre un’ora, lavorando con le cesoie e la fiamma ossidrica.
Il primo a tentare un soccorso di fortuna, pochi attimi dopo l’attentato, è stato un contadino, che stava dissodando il terreno ai margini dell’autostrada. Ha raccontato di avere estratto dalla Croma bianca il corpo di una donna, la moglie del magistrato, e quello di un uomo gravemente ferito, quasi certamente lo stesso Falcone. I responsabili degli uffici investigativi e giudiziari, muovendosi come automi in quello che era un tratto d’autostrada, non riescono nemmeno a commentare l’accaduto. Il procuratore capo della Repubblica Pietro Giammanco ed i suoi sostituti, il procuratore generale Bruno Siclari camminano sgomenti in questo “set” dell’orrore. Ben altra voglia di parlare hanno gli agenti, i colleghi de tre uomini fatti saltare in aria come bestie.
“Bastardi macellai”, dice un poliziotto, un altro, più in disparte, piange come un bambino. Come piangono i familiari delle vittime. Antonio Montinari era originario di Calimera, un centro della provincia di Lecce, dove vivono ancora la madre ed alcuni familiari. Vito Schisano aveva 27 anni: lascia la moglie Rosalia, di 24, ed un bambino, un piccolo batuffolo di appena quattro mesi.
Rosalia viene a conoscenza dell’attentato mentre, a casa, stava guardando la tv. Sconvolta, si reca in ospedale: urla, chiede ai colleghi del marito di accompagnarla al pronto soccorso. Dopo poco è la cognata, ginecologa in servizio all’ospedale, a dirle che Vito è morto. E in un angolo spoglio di una stanzetta, le due donne si confortano. Sono scene che si ripetono, di lì a poco. In ospedale sono giunti poco prima delle 23 i ministri Claudio Martelli e Vincenzo Scotti, accompagnati dal capo della polizia Vincenzo Parisi. Per circa venti minuti sono rimasti nell’istituto di medicina legale. Assieme a loro il presidente della Commissione antimafia, Gerardo Chiaromonte, il prefetto Mario Jovine, il questore Vito Plantone. Nessuno di loro ha voluto rilasciare dichiarazioni. Nemmeno una parola.

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