CANNES – C’era tanta attesa per “Cosmopolis”, dati i tre grandi nomi: David Cronenberg, Don DeLillo, e, ovviamente, Robert Pattinson. Le fan lo aspettavano al varco, lui star timida gli si concede (foto, autografi, sorrisi); i critici anche lo aspettavano: finita l’era “Twilight”, è ora di un cinema per tutti, non solo per le under 16. Fortuna per il giovane divo di aver incontrato e sedotto Cronenberg, gigante del cinema e mente geniale, tra gli ultimi autori veramente liberi della macchina hollywoodiana (pertanto lui gira a Toronto, con soldi canadesi). Ma non è questa la sua occasione: non colpa sua, certo, non solo colpa sua. In linea col penultimo e non eccelso lavoro di Cronenberg, “A Dangerous Method”, freddo, verbosissimo, noioso e incompiuto: ecco “Cosmopolis”, che dice cose diverse, ma allo stesso modo. Potrebbe essere teatro, visto che si parla solo e c’è quasi un solo spazio: quello alienante, iperprotetto, hi-tech, della limousine in cui il giovane rampante straricco capitalista Eric Packer (eroe di DeLillo, ma simile alle creature di Bret Easton Ellis) passa la sua giornata, accogliendo ospiti, copulando e seducendo donne diverse, mentre fuori New York è in subbuglio per l’arrivo del Presidente e per questa crisi che pare lui abbia causato, col crollo del suo impero economico. New York in riot come la L.A. del ’92, gli scrivono sulla limo, lo contestano, lo assaltano, gli mostrano (simbolici?) ratti morti, lui freddo e indifferente continua la sua strada e la sua ossessione: andarsi a tagliare i capelli. Tra una copula è l’altra, c’è solo la parola: sopprime l’immagine, i personaggi, tutto. Si parla di crisi, di tecnologia, di capitalismo, se lo yen cade e se i ratti sarebbero una degna unità di scambio: ovviamente non vuole dire niente tutto ciò. Avesse avuto un briciolo di ironia, sarebbe stata forse una bella satira: ma né Cronenberg né Pattinson ce l’hanno. Si prendono piuttosto troppo sul serio, sul filosofico, sul solenne, su un’apocalissi artificiosa quanto le perle di cinismo nichilista che questo golden boy fighetto spocchioso e indolore che dalla vita ha avuto tutto (successo, soldi, donne) senza fare niente, cioè un perfetto Robert Pattinson nel ruolo di se stesso, regala a chiunque: come se davvero nella vita di tutti i giorni parlassimo davvero così, come libri stampati, con frasi fatte e preparate da lasciare a bocca aperta (tutti attori, tutti artifici, tutto finto). Fino al delirante scontro finale, teatralissimo e macchinoso a livelli di pubescenza esaltata, tra il nostro e Paul Giamatti che è un suo scontento dipendente ridotto alla depressione. Non è più vampiro, ma Pattinson sembra parlare sempre a un pubblico adolescenziale: forse più maschile e invasato di quella violenza pulp e macho che pure qui non manca. Curioso stavolta non vedere in Cronenberg l’abituale schizofrenia, la psicanalisi, la metamorfosi del corpo e della mente: ma piuttosto una pretenziosa (quindi non riuscita) critica al capitalismo, con una superstar protagonista e un marketing dietro che fa spavento, credendo di essere attuale (la crisi: ormai quasi un luogo comune) o addirittura profetico. Non personaggi ma camei, non una storia ma situazioni. Quando il cinema “imita” la letteratura.
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