CANNES – “Post Tenebras Lux”, mistico, ambiguo, sperimentalissimo film messicano, è il tipico film da Festival di Cannes: di élite, per pochi, diremmo per nessuno. Ascendenze dal recente orrido (“Antichrist” di Lars Von Trier) e dal recente sublime (“The Three Of Life”, di Terrence Malick, Palma d’oro un anno fa), il film di Carlos Reygadas suscita ciò che si aspettava: mugugni, buuu, fischi, gente che se ne va e protesta, qualche applauso. Post tenebras lux, dopo la tenebra la luce: la salvezza è la fine del film, la luce è tornare alla realtà. Magia del cinema, dopo due ore, il pubblico della sala è dimezzato: dove è andato? Si parlava di una festa sullo yacht di P. Daddy (o era Kanye West?): forse entrambi. Così possiamo giustificare la presenza di questi neri simil rapper papponi con occhiali semi-scuri e donne meravigliose, vestite come fate o sirene. Ricche e belle persone cui la vita nulla ha negato, figurarsi il quasi inaccessibile ingresso al Grand Theatre Lumiére, e che si trova a un festival di cinema quando del cinema gli piace solo l’aria: la puzzante naftalina delle più vecchie e l’incanto di chi con limo, suite al Majestic e smoking Hugo Boss, ha la sua mini-felicità. Cinque, dieci, trenta minuti al cinema: non gliela fanno, si va via. Meno male che Cannes si prefigura come un festival “per soli professionisti del settore”. Dopotutto cos’è Cannes? Niente più che la sfilata sul red carpet, le luci della ribalta e i quindici minuti di fama che insomma fanno tanto glamour e riempiono le pagine dei giornali, per non dire vuote autostime. E per dire: io c’ero, guarda che tacchi, che papillon. Magari “rubando” un invito a chi per ore aspetta fuori, a chi magari è lì perché il cinema lo ama, comunque; Cannes è il cinema, il cinema è passione. Per carità: questo film, nonostante sia in selezione ufficiale (vuol dire poco tuttavia), è un brutto film, nella media dei brutti film presuntuosi, prolissi, pseudo-filosofici che cosa vogliano dire lo sa solo il regista. Quei film che a vederli, e a subirli, si pensa quanto pazzo sia l’autore a idearlo, il produttore a metterci la grana, gli organizzatori del festival a proiettarlo: non certo i cinefili onnivori che per fame mangerebbero anche i rifiuti. Tale è, con buona pace del cinema d’autore, e con tutto il rispetto per Reygadas, questa sagra di invenzioni surreali, visioni apocalittiche, sogni perversi, inutili violenze: che va di qua, di là, senza raggiungere alcun punto. Ci si annoia molto, nonostante il promettente inizio (una bambina invoca la madre in un pascolo di vacche, mentre impazza una tempesta) e certe trovate scioccanti anche se fini a se stesse (il demonio fosforescente che si aggira per la casa con la valigia da medico; lei che, come Catherine Deneuve in “Bella di giorno”, frigida col marito, si prostituisce in un bordello per scambisti), tanto vago è tutto, con un senso talmente recondito che si sospetta non esista. La storia (?) è quella delle tensioni, implicite o meno, di una famiglia della campagna messicana. Sogni, perversioni, vita di tutti i giorni, qualche violenza fisica (il marito ammazza di botte il suo cane) e psicologica (la crisi della coppia, legata a un’inesistente vita di letto che frustra lui e umilia lei). Una delle ultime aberranti immagini, che risveglia l’andamento soporifero del film, è lui che si stacca la testa con le mani grondando sangue sul prato. Perché? Esperienza visiva e interiore, logorante e terribile, filmata (almeno un pregio) con lenti sfocate che sdoppiano l’immagine come miope caleidoscopica onirica visione, “Post Tenebras Lux” non porta a conclusioni, porta all’indifferenza. Come un incubo sconnesso, o un pensiero ubriaco, cade nell’abisso delle cose inutili e maligne: l’oblio.
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