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Amnistia, la parola che la politica si rifiuta di pronunciare

di Lorenzo Mineo

Per anni, la giustizia è stata il tema caldo del dibattito politico italiano, soprattutto per le modalità e le occasioni attraverso cui il nostro precedente capo di Governo, Silvio Berlusconi, ha saputo fare di questa un tema quasi personale, riuscendo a farci dimenticare, distratti com’eravamo a seguire gli scandali giudiziari nei quali era coinvolto o ad ascoltare le sue promesse messianiche di una riforma del sistema che non avrebbe mai visto luce, quanto in realtà il problema giudiziario attenesse drammaticamente alla cosa pubblica.
Certamente i mezzi di (dis)informazione del nostro Paese, dai mass media alle grandi testate giornalistiche, hanno contribuito a fortificare la nostra dimenticanza, lasciando sempre in secondo piano, rispetto agli affari giudiziari dell’ex premier, le condizioni generali della giustizia italiana, che nel frattempo si sono sempre più avvicinate a quelle dei paesi del terzo mondo, sia per quanto concerne la situazione carceraria sia per l’aspetto processuale. Tanto per farci un’idea, ecco un breve elenco delle cifre che soppesano lo stato disastrato della giustizia italiana oggi:
•oltre 67.000: i detenuti nelle carceri italiane;
•45.551: la totalità dei posti disponibili nelle celle;
•150%: la percentuale di sovraffollamento nelle carceri italiane, che costringe anche fino a sei reclusi in celle adibite a ospitarne due;
•3 metri quadrati: spazio vitale del detenuto medio italiano (non mancano casi peggiori), mentre la Corte Europea dei diritti dell’uomo sancisce che ogni detenuto abbia a disposizione almeno 7 metri quadrati;
•40%: la percentuale di detenuti in attesa di giudizio (il cui 50%, in media statistica, risulterà poi innocente);
•circa 1000: i morti nelle carceri italiane negli ultimi dieci anni;
•oltre 700: i suicidi nelle carceri italiane negli ultimi dieci anni, tra detenuti e guardie penitenziarie;
•9.000.000: i processi pendenti in Italia;
•169.000: in media, i processi che ogni anno non arrivano a sentenza definitiva perché cadono in prescrizione, per un ammontare di 1.690.000 processi prescritti negli ultimi dieci anni ;
•10 anni: la durata media di un processo in Italia;
•1095: il numero di condanne che, negli ultimi cinquant’anni circa, la Corte Europea di Giustizia ha inflitto all’Italia per “l’irragionevole durata dei processi”.
Questi sono i dati sconcertanti e disperati, troppo spesso taciuti, della giustizia italiana. Una giustizia criminale e indegna di uno stato di diritto, che sistematicamente persiste in una flagranza di reato, violando, oltre che diritti fondamentali, ogni criterio di umanità e di rispetto nei confronti dei detenuti, privati di dignità, e dei tanti cittadini – circa 20 milioni – che insieme ai loro familiari sono implicati in processi che in gran parte dei casi non arriveranno a sentenza definitiva.
Tanto più in un momento di crisi economica come quello che stiamo vivendo, l’urgenza di risolvere la drammatica situazione della giustizia in Italia si fa fortissima: fintanto che i tempi per ottenere giustizia rimangono opposti a quelli del mercato, sempre meno imprenditori investiranno nel nostro paese. Come far fronte dunque a un problema di tale portata? Questa è la domanda, elusa dal dibattito pubblico, cui la politica italiana (fatta eccezione di pochi) non sembra dare risposta chiara. Sicuramente un’opera concreta di depenalizzazione dei reati senza vittima su droga, prostituzione e immigrazione, casi di cui sovrabbondano i tribunali e le carceri, aiuterebbe a portarci in direzione risolutiva alla presente situazione, e in questo senso un effetto notevole lo avrebbero anche una riorganizzazione e una ripresa di investimenti sulla giustizia, che varrebbe a dire accorpare sedi, informatizzare, potenziare uffici. Ma non basterebbe. Perché tutto ciò potrebbe impedire una (ulteriore) degenerazione del problema, ma in nessun modo lo estirperebbe alla radice: in termini pratici, potrebbe evitare un aumento (che invece sembra oggi ahimè prevedibile) di quei nove milioni di processi pendenti, ma non una loro drastica riduzione, né tantomeno il loro smaltimento. Quali soluzioni adottare allora? Per rispondere a questa domanda la politica italiana dovrebbe sfatare il tabù che le impedisce di mettere in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale, e cioè di stabilire quali siano i procedimenti sui reati più gravi e annullare tutti gli altri, ricavando la certezza di portare a termine i processi per i reati più gravi proprio dal fatto di aver mandato a monte tutti gli altri, scarcerando, inoltre, i detenuti per reati minori: in una parola, il procedimento che consentirebbe l’estinzione del reato e della pena e la rinuncia, da parte dello Stato, a perseguire determinati reati, si chiama amnistia.
Si potrebbe obiettare: annullare larga parte dei processi in atto significherebbe rinunciare alla certezza del diritto e ammettere che non venga resa giustizia alle vittime giudiziarie, ammettere cioè la sconfitta dello Stato. Verissimo. Ma, purtroppo, nel nostro Paese la certezza del diritto manca già oggi, quando ogni giorno vengono prescritti in media 460 processi circa, per un totale di 169.000 prescrizioni l’anno: una vera e propria amnistia subdola e classista, concessa solo a chi può permettersi un buon avvocato che allunghi il processo e ne impedisca l’arrivo a sentenza definitiva.
Questo dato, insieme agli altri sopra citati sulle condizioni della giustizia italiana, attesta di per sé una sonora sconfitta dello Stato sul piano giuridico: l’amnistia, che peraltro a differenza della prescrizione prevede la chiusura dei processi con giusto risarcimento per le vittime di reati, costituirebbe perciò l’ammissione di questa sconfitta e la premessa da cui ripartire per una strutturale riforma della giustizia, che impedisca in futuro il riproporsi delle attuali condizioni. Per quanto urgente, infatti, una riforma della giustizia d’impatto concreto sarà possibile solo dopo che verrà smantellato il macigno del passato sotto il quale oggi è schiacciato il nostro apparato giudiziario: solo con un’amnistia potrebbero essere ridotti di colpo i tempi dei processi (meno processi ci sono sulle scrivanie dei magistrati, prima vengono portati a termine) e sarebbe risolta nell’immediato la criminale condizione penitenziaria.
Oggi un provvedimento di questo genere, che per essere attuato necessita l’approvazione dei due terzi del parlamento, è ben lontano dall’ampio consenso parlamentare di cui avrebbe bisogno, promosso invece da una netta minoranza politicamente trasversale, che va da deputati e senatori del PD ad altri del PDL, passando per qualcuno dell’UDC, e soprattutto per i Radicali, che da qualche anno a questa parte più di tutti hanno tentato e tentano di sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema. Una discussione sull’amnistia è infatti oggi del tutto elusa dal dibattito pubblico, e questa mancanza d’informazione sul tema, insieme all’uso spesso demagogico di una materia così delicata come la giustizia, condiziona l’opinione dei cittadini, portati a credere che una concessione di amnistia comprometterebbe il loro legittimo diritto alla sicurezza, mentre questo verrebbe garantito dalla selettività della misura applicata: l’amnistia non corrisponde ovviamente alla scarcerazione della totalità dei detenuti, ma solo di quelli condannati per determinati reati, stabiliti dal Parlamento.
C’è quindi urgenza che su questo punto si faccia chiarezza e che l’amnistia divenga argomento centrale del dibattito pubblico italiano, in nome del diritto dei cittadini ad essere informati e per imporre all’agenda politica italiana un tema che per principio ne viene escluso, mentre a risentirne è sempre più il tasso di democrazia di questo Paese.