di Gianmarco Botti
“La storia del mondo è un poema divino,
di cui la storia di ogni nazione è un canto e ogni uomo una parola”
La seconda presidenza più breve della storia americana si annunciava una delle più promettenti. E c’è da credere che, se due colpi di rivoltella non lo avessero raggiunto dopo appena quattro mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca, James Abram Garfield si sarebbe dimostrato un grande presidente. Magari non un nuovo Lincoln, ma qualcosa del genere. La sua candidatura, nata nel 1880 in un Partito Repubblicano profondamente diviso, una parte del quale pensava addirittura di ripresentare l’impresentabile Grant, voleva essere un segnale di continuità con il processo di moralizzazione della politica debolmente avviato dal presidente Hayes. Garfield, predicatore laico e membro fervente della Chiesa dei Discepoli di Cristo (di gran lunga il presidente più devoto che gli USA abbiano mai avuto, almeno fino ai tempi di Jimmy Carter), sembrava la persona adatta per portarlo avanti e archiviare definitivamente la stagione degli scandali. Era nato in una poverissima famiglia contadina dell’Ohio, analfabeta, ma da bravo “self-made man” aveva scalato le vette del successo e si era fatto una notevole istruzione: insegnante in un college, poi avvocato, aveva combattuto nelle truppe dell’Unione durante la Guerra Civile; nel 1876 aveva trovato una nuova dimostrazione del teorema di Pitagora e aveva dichiarato, rivelando il suo incipiente interesse politico: “Questo è qualcosa su cui i due rami del parlamento potranno essere d’accordo”. I primi passi nel mondo istituzionale li aveva mossi come parlamentare repubblicano alla camera dei rappresentanti sotto la presidenza Hayes. Ma il Partito Repubblicano di cui Garfield si sentiva parte non era la perversa macchina distributrice di favori e raccomandazioni che negli anni Settanta aveva ridotto la politica ad un business; il “suo” partito era il partito di Lincoln, la creatura nuova della politica americana, forza del cambiamento e del progresso sociale, animata da una sincera ispirazione ideale e nutrita di quei principi di uguaglianza e libertà su cui si fonda la Costituzione degli Stati Uniti. E le salde convinzioni morali del predicatore divennero presto le linee guida dell’agire del presidente: appena eletto, Garfield volle affermare la piena autonomia della carica presidenziale, rivendicandone le prerogative e lasciando a bocca asciutta quanti lo avevano sostenuto in vista di un tornaconto. Nell’assegnazione degli incarichi si rifiutò di seguire i criteri dello spoils system e affidò posti di prestigio a numerosi afroamericani, dando un notevole contributo alla causa dell’avanzamento sociale della popolazione di colore. Era l’eredità di Lincoln, la rivoluzione incompiuta dell’emancipazione, che Garfield intendeva proseguire e lo fece anche impegnandosi, da buon professore emerito, a favore dell’istruzione dei neri. Purtroppo, però, i tentativi di un presidente di cambiare le cose nella società americana anche stavolta erano destinati ad interrompersi bruscamente e a Garfield toccò la medesima tragica fine dell’amato predecessore: il 2 luglio 1881, mentre si trovava alla stazione di Washington, uno squilibrato di nome Charles J. Guiteau, disoccupato e deluso dal nuovo corso politico (pare che avesse chiesto un incarico di prestigio al presidente in persona, che glielo aveva rifiutato), gli sparò, ferendolo gravemente. Complice l’imperizia dei medici, che tentarono addirittura di estrarre i proiettili con le nude mani, Garfield morì alla fine dell’estate, il 19 settembre, a causa di un’infezione. La memoria degli Stati Uniti non recherà traccia di questa presidenza brevissima, appena sei mesi, di cui due trascorsi in un letto d’ospedale. Ma il Partito Repubblicano, in tutta la sua storia successiva, difficilmente riuscirà ancora ad offrire al Paese una tale sintesi di integrità morale e ampiezza di vedute. Certo è che dal 1881 in poi esso non sarà mai più il partito dei Lincoln e dei Garfield.