di Giacomo Palombino
“Questa sera vi accompagneremo in un viaggio che andrà da Napoli allo Yemen, da Gerusalemme a New York, e di nuovo a Napoli. Ci inginocchieremo di fronte al Dio della musica che accomuna tutti.”
Insieme al chitarrista Gil Dor, con il quale collabora da ormai più di vent’anni, e al fantastico Solis String Quartet, Noa ricorderà per sempre la serata del 6 Giugno: il giorno in cui ha realizzato il sogno di esibirsi al Teatro di San Carlo. È questa la serata di apertura del “Napoli Teatro Festival Italia”, affidata all’artista israeliana in funzione di un ampio spazio dedicato ad Israele nel programma della manifestazione. Per una come lei, innamorata della città di Napoli, del suo “romanticismo senza sentimentalismo”, deve essere stato straordinario trovarsi in uno dei luoghi simbolo della cultura partenopea gremito di gente.
Il nome di Noa non è mai stato così vicino a quello del capoluogo partenopeo come lo è ora. I due si sono più volte incrociati, più volte accompagnati in esibizioni seguite con entusiasmo e calore dal pubblico. L’ultimo lavoro, però, inaugura un nuovo legame fra l’artista e la città, legame sottolineato dalla originalissima crasi che compone il titolo dell’album: non ci sono più “Noa e Napoli” al centro della scena, bensì un’unica indivisibile entità dal nome “Noapolis”.
L’omaggio alla canzone napoletana risulta questa volta ancora più piacevole rispetto all’altro “Napoli-Tel Aviv”. Mentre in quest’ultimo le canzoni appartenenti alla tradizione vesuviana sono state tradotte in lingua ebraica (lavoro comunque di notevole prestigio), nel nuovo progetto Noa si è concentrata sul canto in lingua originale: scelta coraggiosa, perché estremamente difficile deve essere stato cimentarsi nella interpretazione di brani come “Napule ca’ se ne va” o “Sia maledetta l’acqua” cantando in lingua napoletana.
A coloro che si interrogano sul perché di questo omaggio, Noa risponde che la sua vita è piena di legami con Napoli. Suscita il sorriso dell’intero pubblico quando, raccontando i diciassette anni trascorsi con la sua famiglia in un palazzo del Bronx, ricorda i vicini di casa di origine napoletana con la canzone “A cartulina ‘e Napule”. “Condividevamo gli stessi sentimenti – dice Noa – le stesse nostalgie. I nostri sogni erano i loro sogni, i nostri dolori erano i loro dolori”. Un concetto ribadito anche nel suo incontro con la stampa: gli emigranti costituiscono una sorta di collante tra parti del mondo distanti fra loro, che finiscono con il divenire estremamente vicine: una vicinanza che si costruisce sulla convinzione di essere tutti uguali, senza distinzioni di alcuna sorta. In più, Napoli le ricorda in modo straordinario la sua terra di origine, conosciuta in un periodo già maturo della sua esistenza, con tutte le sue contraddizioni, i suoi pregi e suoi difetti.
Lo spettacolo sorprende, affascina l’intero pubblico del San Carlo, il quale si lascia coinvolgere da una cantante che non ama alcun tipo di compromesso artistico. Si ascoltano brani cantati con la giusta dolcezza e il giusto sentimento, come “Santa Lucia” o “Je te vurria vasà”, evitando inutili ed ingombranti esibizionismi comuni a molte colleghe; e nello stesso momento viene concesso un ritmo elettrizzante, magnetico, ipnotico, come quello della “Tammurriata Nera”. Ci si lascia completamente catturare dall’immagine di Noa che suona le percussioni sul palco; e ci si sente del tutto spiazzati quando si esibisce a cappella accompagnata dal solo ritmo che produce battendo le mani sul proprio corpo. Un’immagine potente, quella di una donna che con la semplicità di una madre di famiglia riesce a sostenere la presenza sul palcoscenico come se ad esibirsi fosse un’intera orchestra. È straordinario anche il momento dei ringraziamenti e delle presentazioni: non si assiste alla lettura di un semplice elenco di nomi e cognomi, ma gli stessi vengono intonati in maniera simpatica e divertente.
Non c’è solo musica partenopea a definire la scaletta della serata. Diversi sono i brani cantati in lingua inglese: fra le altre, ricordiamo “Beautiful that way”, il brano colonna sonora del film premio oscar “La vita è bella” di Roberto Benigni, nominato nel corso dell’esibizione. Diversi sono anche i brani cantati in lingua ebraica, come la stessa “Nonna nonna”, unico pezzo dell’album tradotto dal napoletano, dedicato a tutte le donne che in questo mondo “moderno” (si avverte una forte sottolineatura nella sua pronuncia) ancora non godono dei loro diritti fondamentali. Interessante quindi l’accostamento di brani cantati in lingue differenti: modo molto più significativo di altri per omaggiare Napoli, e proiettare la stessa su uno sfondo ancora più ampio. D’altra parte, è a questo che Noa ci ha abituati negli ultimi anni: a non vedere la nostra terra come l’unico posto che conta al mondo. Se Fellini aveva ragione dicendo che “un’altra lingua costituisce un’altra visione della vita”, quello che la cantante è riuscita a fare ieri sera è stato dimostrare l’esistenza di un collegamento fra punti di vista solo apparentemente differenti.
Dialogando con la stampa, dichiara però che “la musica da sola non può portare la pace nel mondo. È sicuramente un veicolo importante tramite il quale far circolare idee di uguaglianza e fratellanza. Ma per cambiare la mentalità della gente c’è bisogno che tanti piccoli e grandi gesti vengano compiuti dai rappresentanti mondiali della politica, della religione e della finanza”.
Non ci si sofferma volutamente sulle proteste sollevate prima del concerto contro l’artista israeliana; non si vuole concedere alcun commento alla scritta che si legge all’uscita dal teatro “Boicotta il sionismo e la sua cultura”. A reclamare sono quelli che non hanno percepito il messaggio semplice e puro della cantante; quelli che preferiscono navigare nell’ignoranza dell’esistenza di un mondo molto più variegato rispetto a quello della nuda ideologia.
Ma il numeroso pubblico del San Carlo applaude, e lo fa con una standing ovation che costringe l’artista a tornare per ben due volte sul palco.
Napoli risponde all’omaggio di Noa con un sentito grazie.