“A che serve essere eletto o rieletto se non ti batti per qualcosa?”
Per riprendersi la Casa Bianca dopo quasi un quarto di secolo passato all’opposizione, i Democratici si affidarono ad un astro nascente della politica locale: già sceriffo di contea, sindaco di Buffalo e poi governatore dello stato di New York, Grover Cleveland era ormai pronto per il grande salto sullo scenario politico nazionale. La determinazione e la rettitudine dimostrate nel suo precedente servizio ne facevano l’uomo giusto per dare un volto nuovo al partito dell’asinello che, a vent’anni dalla fine della Guerra di Secessione, ancora non era riuscito a scrollarsi di dosso la scomoda etichetta di portavoce ufficiale degli interessi del Sud schiavista. I repubblicani, dal canto loro, giocarono la partita facendo leva su quel senso di superiorità morale che la storia degli ultimi anni pareva aver loro riconosciuto e condussero una campagna denigratoria volta a screditare l’avversario sul piano personale: protagonista del primo sexgate che la politica americana ricordi, Cleveland fu accusato di indegnità morale per una relazione illegittima avuta in giovinezza, dalla quale era nato anche un figlio. Ma il suo atteggiamento deciso e la sua insofferenza verso le convenzioni sociali (appena due anni dopo il suo insediamento avrebbe sposato una ragazza ventenne e sarebbe diventato, a quasi sessant’anni, padre di una bambina, la sola, fino ad oggi, che sia nata alla Casa Bianca) convinsero gli elettori, che volevano un presidente forte, capace di resistere alle pressioni del potere economico che in quegli anni allungava la sua ombra sulla politica di Washington. E in effetti, sotto l’amministrazione Cleveland, nessun gruppo di interesse ebbe vita facile nel perseguire i propri scopi: influenti élites di affaristi del West con interessi nelle ferrovie, nel legname e nel bestiame furono costretti a restituire grandi appezzamenti di terra di cui si erano appropriati indebitamente; il Grand Army of Republic (GAR), potentissima associazione dei veterani della Guerra di Secessione, vide per la prima volta limitata la propria autonomia e le richieste di pensioni a beneficio dei veterani furono attentamente esaminate dalla presidenza, che si riservò la libertà di respingere col diritto di veto quelle che apparivano ingiustificate. Nel 1887, quando il Congresso approvò il Dependent Pension Bill, che concedeva la pensione a tutti gli ex soldati portatori di qualche invalidità, indipendentemente da come e dove se la fossero procurata, Cleveland oppose il suo veto. Intanto il presidente si lanciava in una crociata contro i prezzi troppo elevati dei dazi doganali, facendosi nuovi nemici. La vendetta dei poteri forti non avrebbe tardato ad arrivare. Nella campagna elettorale del 1888, la più corrotta della storia americana, gli industriali si coalizzarono per finanziare massicciamente la compravendita di voti e riuscirono a strappare a Cleveland, che pure fece il pieno di voti popolari, la maggioranza dei delegati. Il vecchio presidente tuttavia non si perse d’animo e dopo la parentesi di governo del repubblicano Harrison, si ripresentò nuovamente, aggiudicandosi stavolta, oltre al voto popolare, anche quello dei delegati. Era la prima volta, e ad oggi è rimasta l’unica, che un presidente veniva eletto per due mandati non consecutivi. La seconda amministrazione Cleveland, caduta in un momento di acuta depressione economica, fu tuttavia assai meno prodiga di risultati: il presidente, che in fatto di economia aveva una visione piuttosto ristretta, non riteneva che favorire la ripresa fosse compito del governo e così intervenne con scarsa incisività, tranne quando si trattò di inviare l’esercito per reprimere gli scioperi, il più celebre dei quali ebbe luogo presso la compagnia ferroviaria Pullman Palace Car Company. Personaggio complesso e contraddittorio, liberale e conservatore insieme, allo scadere del suo secondo mandato Cleveland non si ritirò dalla scena pubblica, andando anche in questo controcorrente rispetto alla maggior parte dei suoi predecessori: antimperialista convinto fin dagli anni della presidenza, si impegnò in prima persona, insieme ad un nutrito gruppo di politici ed intellettuali, a combattere certe tendenze di stampo colonialista che stavano prendendo piede negli USA e che rivolgevano la loro attenzione verso l’Asia, l’America Latina, le isole del Pacifico.