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23. Benjamin Harrison, il piccolo presidente

Benjamin Harrison, repubblicano (presidente dal 1889 al 1893)

di Gianmarco Botti

“Io sapevo che rimanere sveglio non avrebbe cambiato
il risultato delle elezioni se avessi perso,
mentre, se eletto, avrei avuto davanti a me una giornata dura. Così ho pensato che in ogni caso
andarmene a letto fosse la scelta migliore”

Nipote di quel William Henry Harrison che fu presidente per un mese soltanto, a Benjamin Harrison non bastarono quattro anni alla Casa Bianca per conquistare un posto nella memoria nazionale. Schiacciato fra le due presidenze dell’ingombrante Grover Cleveland, il suo mandato rappresenta poco più di una parentesi nella vita politica americana di fine ’800. Non erano stati il buon nome della famiglia né i suoi trascorsi professionali di uomo di legge (piuttosto opachi, in verità) a fruttargli la nomination per il Partito Repubblicano, bensì la provenienza geografica: l’Indiana, uno degli stati tradizionalmente più incerti in fatto di voto, non aveva espresso fino ad allora nessun candidato alle presidenziali e ai dirigenti del partito questo sembrò un buon motivo per puntare su Harrison, che di quello stato era senatore. Le elezioni del 1888 furono un vero testa a testa, ma alla fine Harrison riuscì a conquistare gli stati incerti e a prevalere per numero di delegati sul pur più popolare Cleveland. Fondamentale per la sua vittoria fu la spinta del potere economico e finanziario che si era coalizzato contro il presidente uscente e auspicava, con l’elezione di un repubblicano alla Casa Bianca, un ritorno a politiche più favorevoli ai propri interessi. In effetti, l’agenda elettorale di Harrison sembrava ricalcata per contrasto su quella del predecessore: se Cleveland aveva portato avanti, in nome dei principi del liberismo, una dura battaglia contro il prezzo dei dazi doganali, Harrison proponeva un programma economico rigidamente protezionista, in grado di rassicurare gli industriali spaventati dai rischi della concorrenza con le merci straniere; se Cleveland si era dato anima e corpo a combattere le truffe e i raggiri nel torbido mondo delle pensioni di guerra, Harrison promise alle associazioni dei veterani una maggiore elasticità nell’esame delle invalidità. Considerando la risicatissima maggioranza di cui i repubblicani disponevano in Congresso e il regolamento che permetteva alla minoranza democratica di fare ostruzionismo, sembrava tuttavia difficile che il presidente potesse attuare il suo programma senza scendere a compromessi. Difficile ma non impossibile, e grazie ad una gestione piuttosto autoritaria dei lavori della Camera, i repubblicani riuscirono comunque a far approvare le loro leggi, dominando di fatto la legislatura. Una legislatura, la cinquantunesima (1889-1891), in cui il Congresso si meritò l’appellativo di “miliardario” per le spese pazze che approvò, con il pieno sostegno della Casa Bianca: finanziamenti a pioggia per i lavori pubblici, sussidi per la navigazione a vapore, un nuovo Dependent Pension Bill, simile a quello cui Cleveland aveva posto il veto, che aumentò vertiginosamente il numero dei pensionati e l’importo del loro corrispettivo annuo. I repubblicani non dimenticarono di ricompensare gli industriali per il loro appoggio con il McKinley Tariff Act che portò alle stelle le tariffe doganali ed accrebbe il numero dei prodotti protetti. Gli sperperi del “Congresso miliardario” non furono tuttavia senza effetti sulla situazione economica che rapidamente peggiorò, creando nell’opinione pubblica un vasto risentimento verso le istituzioni e il presidente. Le elezioni di midterm del 1890 diedero un duro colpo alla maggioranza repubblicana che perse metà dei seggi alla camera. Il passo successivo fu la sconfitta alle presidenziali del 1892 che furono una sorta di riedizione della sfida Harrison-Cleveland del 1888, soltanto a ruoli rovesciati: stavolta il vecchio presidente democratico riuscì a prevalere per circa 380000 voti, un margine non straordinario ma pur sempre il più significativo degli ultimi venti anni. Benjamin Harrison, “il piccoletto”, come lo schernivano i suoi oppositori per via della bassa statura, tornò nell’ombra. La statura del presidente non superò quella dell’uomo.