“La bandiera americana non è stata piantata sul suolo straniero per acquisire più territori, ma per il bene dell’umanità”
Alla fine del XIX secolo le interferenze delle lobby degli affari e della finanza nella vita politica americana si erano fatte così pesanti che poco mancava che scendessero in campo con un loro candidato. L’inasprirsi della crisi economica e il timore di una nuova vittoria dei Democratici spinsero gli industriali a puntare tutto sulle elezioni del 1896 e su chi, nel Partito Repubblicano, avrebbe potuto difendere con più forza i loro interessi: William McKinley, autore di quel McKinley Tariff Act che aveva posto sotto tutela la produzione industriale americana imponendo un rigoroso regime protezionistico, era l’uomo giusto. Già eletto in entrambe le camere e governatore dell’Ohio per tre mandati, McKinley poteva contare su amicizie importanti come quella dell’industriale Marcus Alonzo Hanna, potentissimo boss politico nel suo stato di provenienza. L’appoggio di Hanna, che sponsorizzò convintamente la sua candidatura, costò a McKinley violenti attacchi da parte degli avversari, che lo accusavano di essere un burattino nelle mani dei poteri forti, ma fu tuttavia determinante per la sua vittoria. Mentre il giovane e appassionato candidato democratico William Jennings Bryan girò il Paese in lungo e in largo per portare il suo messaggio nelle più desolate regioni rurali, McKinley condusse la campagna in modo tradizionale, standosene a casa propria e lasciando che ad agire fosse l’apparato di partito. Un apparato colossale, messo in piedi da Hanna che spese fior di quattrini per denigrare il democratico e far sorgere ovunque comitati pro McKinley; arrivò perfino a noleggiare un gran numero di treni con lo scopo di portare gli elettori a Canton, in Ohio, dove viveva McKinley, a confrontarsi direttamente con il candidato. La sfida si concluse con la netta affermazione di McKinley e con un’ancor più netta spaccatura del Paese: avevano votato repubblicano i centri urbani del Nord e della East Coast, mentre il vasto mondo delle campagne, da Ovest a Sud, aveva scelto i democratici. A decretare il trionfo dei repubblicani era stata l’immagine di partito della prosperità e del patriottismo con cui si erano presentati agli elettori, con McKinley che rivendicava le sue competenze di businessman e i meriti di veterano della Guerra Civile. Un’immagine che risultò rafforzata dalla conclusione della crisi economica, verificatasi pochi mesi dopo il suo insediamento e dovuta, a dire il vero, più ad un’evoluzione positiva della congiuntura internazionale, che non all’azione della Casa Bianca. Da parte sua McKinley aveva riempito il governo di persone assai competenti in fatto di economia ed era rimasto fedele al credo protezionista, portando i dazi doganali a livelli record; da fervente sostenitore della base aurea della moneta, legò definitivamente ad essa i destini dell’economia americana con il Currency Act che pose fine all’annosa diatriba con i fautori del bimetallismo. Più oscillante fu la sua condotta in politica estera: da buon uomo d’affari era consapevole dell’effetto destabilizzante della guerra per l’economia di un Paese appena uscito dalla depressione e così dapprima resistette all’accesa propaganda nazionalista che spingeva per un intervento contro la Spagna, che ancora governava su Cuba minacciando l’indipendenza del continente americano; poi, dopo la pubblicazione della lettera di un diplomatico spagnolo che conteneva riferimenti denigratori alla sua persona e la distruzione, nel porto dell’Avana, della corazzata statunitense Maine in circostanze mai chiarite, McKinley fu costretto ad intervenire. La guerra ispano-americana, nata come guerra “umanitaria” per liberare Cuba, divenne presto una guerra di conquista, volta a sottrarre agli spagnoli vaste aree del loro impero coloniale sparso per il globo. Particolarmente interessante fu la vicenda delle Filippine, che il trattato di pace assegnò agli USA: l’estraneità americana rispetto alla cultura di quei territori, esemplificata dalle dichiarazioni di McKinley che affermava di voler “elevare e cristianizzare” un popolo che in realtà era già cattolico da tempo, causò la reazione dei filippini che, nel tentativo di liberarsi dai nuovi dominatori, furono schiacciati da un regime d’oppressione più duro di quello spagnolo. Nonostante i dubbi risultati di questi primi quattro anni, McKinley si ripresentò alle elezioni del 1900 col motto trionfale “prosperità interna e prestigio all’estero” e venne eletto per un secondo mandato battendo il solito Bryan con un margine ancora più alto. La sua permanenza alla Casa Bianca non sarebbe però stata lunga, giacché il 6 settembre 1901, dopo aver pronunciato un discorso all’esposizione panamericana di Buffalo, il presidente fu colpito a morte da un anarchico di origini polacche, Leon Czolgosz. Sarebbe morto pochi giorni dopo, il 14 settembre. Il Novecento americano si apriva con un nuovo fatto di sangue.