di Gianmarco Botti
“Il politico che ha più successo
è quello che dice più frequentemente, e a voce più alta,
quello che tutti stanno pensando”
Subentrando nel settembre 1901 a William McKinley, caduto vittima di un attentato, Theodore Roosevelt raggiunse il suo primo record presidenziale: a quarantadue anni era (ed è rimasto ancora oggi) il presidente più giovane della storia americana. Eppure alle spalle aveva già una brillante carriera politica e più di un’avventura che lo aveva reso un personaggio quasi mitico. Nato in un’agiata famiglia newyorchese, a ventiquattro anni fu eletto alla camera bassa del suo stato, a trentuno entrò a far parte della commissione federale per il pubblico impiego e a trentasette divenne capo della pulizia municipale di New York. Nel 1897 fu chiamato a ricoprire l’incarico di sottosegretario alla marina nel governo McKinley, ma, allo scoppio della guerra ispano-americana, il suo spirito avventuroso lo spinse a dimettersi per prendere parte ai combattimenti sull’isola di Cuba. Le sue gesta a capo del reggimento di cavalleria dei Rough Riders valsero al colonnello Roosevelt la fama di eroe che rapidamente si diffuse per tutta la nazione. Al rientro in patria lo attendeva l’elezione a governatore dello stato di New York. Il successo, però, guadagnò a Roosevelt anche qualche ostilità (il potente businessman Marcus Hanna era solito riferirsi a lui come a “quel dannato cowboy”) e la sua appartenenza a quell’amplissima corrente trasversale agli schieramenti politici che era il progressismo, gli alienò le simpatie di numerosi big locali del Partito Repubblicano. Nel 1900 gli fu offerta la candidatura a vicepresidente al fianco di McKinley: nessuno poteva immaginare che quello stratagemma volto ad allontanare un “pericoloso progressista” dalla città di New York lo avrebbe portato, nel giro di pochi mesi, a diventare il nuovo inquilino della Casa Bianca. Dopo un inizio cauto, l’esuberanza e la brama di potere che caratterizzavano la personalità dell’uomo presero a dettare anche l’agenda del presidente Roosevelt: operò una vera e propria ridefinizione del ruolo presidenziale, ampliandone le prerogative ed estendendone le competenze, e creò le basi di quel forte potere esecutivo su cui ancora oggi si fonda il sistema politico americano. “L’amministratore del popolo”, come egli definiva la propria carica, doveva esercitare una leadership vigorosa e intervenire con decisione in tutti gli ambiti della vita pubblica, riconoscendo come unico limite ciò che fosse esplicitamente vietato dalla Costituzione. In particolare, Roosevelt si mosse con piena indipendenza in campo economico, rifiutandosi di diventare, come il suo predecessore, un burattino nelle mani dell’alta finanza. Nel suo primo messaggio al Congresso denunciò il “grave e serio pericolo” di un’eccessiva concentrazione industriale e indisse una guerra senza quartiere ai trust: nei quasi otto anni della sua presidenza, “Trust-buster” Roosevelt mise sotto accusa le più potenti società monopolistiche e diede una caccia accanita a quei “delinquenti dai grandi mezzi” che erano gli speculatori. Nella risoluzione dei conflitti lavorativi segnò una netta discontinuità rispetto ai suoi predecessori, avvezzi a sedare gli scioperi con l’uso della forza: il governo si impegnò per una mediazione fra le esigenze dei lavoratori e quelle del capitale, promuovendo negoziati e offrendo alle parti in lotta “uguali possibilità”, in nome della visione rooseveltiana della società che agli interessi di parte anteponeva l’interesse generale. Da politico intelligente qual era, Roosevelt seppe tuttavia trattare anche con gli ambienti dell’alta finanza e per le elezioni del 1904 si guadagnò l’appoggio di Wall Street, fondamentale per ottenere una seconda vittoria. Nondimeno, il presidente continuò a lottare contro alcune frange del mondo capitalistico, in particolare le aziende alimentari e farmaceutiche, accusate di utilizzare sostanze adulteranti nel trattamento di cibi e medicine. E d’altronde l’impegno di Roosevelt a favore della salute pubblica e dell’ambiente è ben noto, così come lo sono i celebri safari naturalistici che egli periodicamente compiva in Africa: irremovibile dinanzi alle proteste di allevatori e industriali in cerca di terreni da sfruttare, il presidente pose sotto tutela centinaia di migliaia di kmq di foresta estendendo a dismisura la riserva federale boschiva. Sul fronte della politica estera, Roosevelt non fu meno determinato: intervenne nella guerra russo-giapponese negoziando i trattati di pace del 1905 e fu insignito per questo del Premio Nobel per la Pace, primo dei soli tre presidenti americani che hanno ottenuto la prestigiosa onorificenza (dopo di lui toccherà a Wilson e Obama) e comunque l’unico repubblicano; si impossessò con procedure poco ortodosse e modi scarsamente diplomatici del canale di Panama, vitale per gli scambi e le comunicazioni, sottraendolo ai colombiani col pretesto di aver ricevuto un “mandato dalla civiltà”. Le ambiguità e le incoerenze di Roosevelt sono quelle di un Paese che si avviava a diventare l’asse portante del nuovo ordine mondiale e per questo doveva uscire dal secolare isolazionismo che fino ad allora aveva orientato il suo atteggiamento. La vecchia dottrina Monroe andava aggiornata e se il corollario apportato da Roosevelt ribadiva l’estraneità degli USA alle faccende straniere, tuttavia ammetteva che talvolta essi potevano essere costretti, “per quanto riluttanti (…) a svolgere il ruolo di polizia internazionale”. Al di là di tutti i limiti e le contraddizioni, la figura di questo tenace riformatore continuò a lungo a godere di incredibile popolarità, tanto che in molti auspicavano una sua candidatura per un terzo mandato. Il presidente rifiutò (salvo cambiare idea qualche anno dopo), preferendo rispettare una tradizione consolidata dai tempi di George Washington. Ci penserà un altro Roosevelt, un quarto di secolo più tardi, ad infrangerla per la prima ed unica volta. Anche dopo l’abbandono della Casa Bianca, tuttavia, il vecchio Theodore continuò a far sentire la sua voce, esortando gli USA ad attrezzarsi militarmente per un possibile conflitto su larga scala e a perseguire una politica dura nei confronti della Germania: era l’alba della Prima Guerra Mondiale.