di Gianmarco Botti
“La verità è che adesso
non ricordo neppure di essere mai stato presidente”
Per rendersi conto di quanto William Howard Taft fosse diverso dal suo predecessore, bastava dargli un’occhiata. Mentre Roosevelt, col suo fisico atletico, affinato dalle imprese di guerra e dai safari, emanava dinamismo ed energia, la paciosa figura di Taft e quei 175 kg che ne hanno fatto il presidente più pesante della storia, tradivano le abitudini sedentarie di un uomo che non si era mai spinto oltre una partita di golf. Eppure fu proprio lui il prescelto per ricevere l’eredità politica del vecchio Teddy Roosevelt: McKinley lo aveva strappato alla sua tranquilla carriera di giudice federale dell’Ohio per spedirlo nelle lontanissime Filippine, da poco divenute territorio americano, dove Taft fu governatore per sei anni; Roosevelt lo destinò poi all’amministrazione del canale di Panama, prima di chiamarlo come ministro della Guerra nel suo governo; nel 1908 fu facile per Taft conquistare la Casa Bianca, forte del legame con il vecchio presidente, che aveva usato tutto il suo prestigio per imporne la candidatura al Partito Repubblicano. Fu a quel punto che cominciarono i problemi. Eletto quasi controvoglia, Taft ebbe enormi difficoltà a identificarsi col suo nuovo ruolo e non aveva alcuna idea di come si governasse o ci si relazionasse con un organo legislativo, lui che per tutta la vita si era mosso all’interno dell’universo giudiziario, costruendo la sua carriera fra tribunali e università. Soprattutto, egli non ebbe né la voglia né la capacità di proseguire l’opera rooseveltiana di ampliamento dei poteri presidenziali e, anzi, fu sempre conscio delle restrizioni che la Costituzione poneva alla sua carica. Politicamente Taft oscillava fra le opposte tendenze del progressismo e del conservatorismo, combattuto com’era fra la sincera volontà di portare a compimento le riforme avviate dal suo illustre predecessore e i limiti di un carattere che non poteva certo dirsi aperto alle innovazioni. Il risultato fu una presidenza che continuò a camminare sul sentiero tracciato da Roosevelt, ma con passo incerto e a tratti esitante, rallentando di fatto il processo di modernizzazione della società americana. Sul fronte della lotta ai trust, Taft diede prova di grande buona volontà, promuovendo un numero doppio di cause contro i monopoli industriali rispetto a quello che si era avuto sotto l’amministrazione precedente. Non furono risparmiati neppure colossi come la General Electric. Il presidente continuò anche le politiche ambientali di Roosevelt, ponendo sotto tutela nuovi terreni forestali. Mostrò perfino un’inaspettata sensibilità per il sociale: istituì il ministero del Lavoro, concesse la giornata lavorativa di otto ore agli impiegati federali e promosse leggi per la sicurezza dei minatori. Portò all’approvazione un emendamento costituzionale, il XVI, che istituiva la tassazione progressiva sul reddito, roba che alla destra americana di oggi farebbe accapponare la pelle. Eppure, una serie di scrupoli e incertezze, frutto della debolezza politica di Taft, erano destinati ad alienargli le simpatie dei progressisti e a favorire la sua identificazione con l’ala conservatrice del partito. La rivolta dei deputati progressisti contro il presidente della Camera, il reazionario Joseph G. Cannon, in un primo momento sostenuta dal presidente, andò incontro al fallimento quando Taft preferì chiamarsi fuori per paura di scontentare la vecchia guardia del partito; in merito alla controversa questione dei dazi doganali, il presidente fece un brusco voltafaccia, firmando un decreto che li riformava sì, ma lasciava comunque altissimi i prezzi, dopo aver promesso in campagna elettorale di abbassarli drasticamente; quando nel governo esplose un duro scontro fra il ministro dell’ambiente e quello degli interni riguardo alla riapertura al pubblico di alcune riserve forestali, Taft prese le parti del secondo, entrando in contraddizione con le sue precedenti politiche ambientali e tradendo di fatto la linea di Roosevelt. A quel punto, cedendo al pressante invito dei suoi seguaci, il vecchio Teddy decise di scendere di nuovo in campo, sfidando quello che era stato il suo pupillo. Le elezioni del 1912, le prime in cui furono celebrate le primarie, videro un duro scontro fra progressisti e conservatori, ammiratori di Roosevelt e sostenitori di Taft. Alla fine Taft riuscì a spuntarla, ma il risultato fu la lacerazione del partito e la fuoriuscita dei rooseveltiani che fondarono il Partito Progressista. Con i Repubblicani divisi, non fu difficile per il democratico Wilson avere la meglio: si chiudeva l’era del dominio incontrastato del Grand Old Party. Senza tanti rimpianti, Taft lasciò la Casa Bianca e si ritirò a Yale dove riprese l’insegnamento. Nell’ultima fase della sua vita lo attendeva però un nuovo incarico pubblico: nel 1921 fu chiamato a presiedere la Corte Suprema, unico presidente ad aver ricoperto anche la più alta carica giudiziaria del Paese. Fu per lui il coronamento di un sogno, la realizzazione dell’unica vera ambizione che aveva avuto nella vita. La sorte volle che riuscisse a portare a termine il suo mandato nel febbraio 1930, appena un mese prima della morte.